martedì 25 ottobre 2016

IL GABBIANO NELLA NEBBIA

C'è nebbia all'orizzonte
mare e cielo
 in un sola pennellata di colore
anche la sabbia è grigia
difficile distinguere la riva
segnalata solo da un sommesso
sussurro di onde .
Rari e lontani i rumori
ogni tanto il grido
di un gabbiano che litiga il cibo
e sfreccia improvviso
davanti ai miei occhi
per scomparire chissà dove.
Camminare sul moletto
è come passeggiare
sul mare senza bagnarsi
i piedi.
 Il grido roco del gabbiano
mi sfiora, ancora,inaspettato 
e allora decido 
di tornare indietro
per posare i piedi
sulla sabbia sicura.



RICORDO DI MARZO



RICORDO di MARZO
Dedicato

Non c’era verso di farlo ragionare!
Quando con lui si toccava un qualsiasi argomento, la mente gli partiva per la tangente e ricominciava a macinare quintali di pensieri e considerazioni; tutti rigorosamente a tonalità negativa e diligentemente legati ad un suo privatissimo e famigliare evento del passato.
“Da du’ se c’mincia, tant lù va semper a f’nì malì!” commentava recentemente una persona che l’aveva visto camminare lento, a testa bassa, lungo i Passeggi, verso le sette di un mattino di 
fine inverno che presagiva una giornata fredda e umida, grigia come una lastra di acciaio anodizzato.
Un semplicissimo “Ciao, cum va?” era sufficiente a scatenare rabbuianti elucubrazioni mentali che, come tori impazziti, cominciavano a correre nell’arena della sua mente, pronti ad ogni devastazione.
Viveva solo, usciva raramente. Ogni mattina si recava al lavoro, impeccabile e stimato nel suo ruolo; il resto del tempo lo utilizzava restando in casa.
Nessuno sa a far cosa.
“En se sent mai nient, manca la televisiòn acesa” riferiva un vicino di casa, che così continuava “Per essa precisi è la luc d’la camera da lett che, in ti’ mument più strani, la vedi acesa travèrs le persian: alle tre d’la matina, alle sett del pumerigg… mo più spess de nott, quand armàn acesa per le or”
“Prò en da’ fastidi ma nisciùn; se ved sol che en ha voja de discurra” si affrettava ad aggiungere la moglie.
Era calmo e tranquillo; sempre, anche quando andava a comperare il pane alla CRAI in via Garibaldi; gentilissimo al limite della piaggeria, taciturno al limite della tomba.
Lo conoscevano tutti e proprio per questo erano in pochi ad arrischiarsi di chiedergli qualcosa: sarebbe ripiombato nella tristezza più profonda trascinandoci l’interlocutore.
Parlando con voce bassa e roca, esordiva sempre con un: “Cu t’ho da di’: ma’ me…” e l’incauto inquisitore capiva al volo di essersi messo nei guai con le proprie mani e che altro non gli restava che cercare una improbabile via di scampo.
“En è ch’è palòs, ma che te mett adòs ‘na tristessa che metà basta” diceva uno
“Avrà anca ragiòn, ma adess basta, èn pasàti tanti ann!” aggiungeva l’altro
“E pù i fioj urmai èn grandi e sistemati; e pu’ anca lu’ pudeva arfàss, in t’una qualca maniera!” suggeriva un terzo.
Il quarto del gruppetto di uomini seduti, quasi distesi -tanto sono basse- in una panchina dei giardini del Luigi Rossi, rimaneva stranamente silenzioso. Al pari degli altri lo guardava passare ma… evitava ogni commento.
“Te cu’ dici?” chiese a bruciapelo uno di loro.
Adoperò un esiguo filo di voce per rispondere con un semplicissimo:
“Che tocca stà sitti”, mentre un lieve dolore gli saliva dallo stomaco sino alla metà del collo, come un piccolo verme che, con incedere lento, risale la mela che intende penetrare.
Sapeva di essere, suo malgrado, uno di quelli -dei tanti- che frustavano i tori scatenati nella povera mente dell’uomo solitario; la sua coscienza non gli dava giustificazione nè perdono al pensiero che quella volta, al tempo dei fatti, lui neanche sapeva chi fosse quel tale che adesso non parlava più e aveva scelto di vegetare piuttosto che vivere.
Guardandolo mentre si allontanava, annuì con un movimento impercettibile della testa.
“Che tocca stà semper sitti”, ribadì solo.





sabato 22 ottobre 2016

SPICCHIO DI SOLE

In un angolo
del mio terrazzo
ancora inondato
dal sole
offro ai miei
occhi socchiusi
l'illusione
di un giorno d'estate.
Vicino alla sedia
dove sono seduto
una pianta di rose
si prepara all'inverno
e da un suo rametto
scende lentamente
in un filo d'argento
un piccolo ragno
che saluta il sole.

mercoledì 19 ottobre 2016

VOLEVAMO CHE IL TEMPO...

Volevamo che il tempo
non si fermasse mai
che i minuti, le ore, i giorni
corressero veloci 
sul filo della vita.
Non ci bastava
 l'età che avevamo,
dovevamo e chiedevamo
di diventare adulti,grandi
sigaretta, bar, biliardo,
ragazze, scooter,
sale da ballo...
e poi sempre più 
di corsa finire la scuola
trovare lavoro,
viaggiare, girare il mondo
avere l'auto, una casa,
essere invidiati
chissà da chi...
.................................
Finita la corsa, 
dato e avuto secondo la fortuna
o le coincidenze 
o anche per nostro merito,
ora accade l'inverso.
Passano i giorni, le settimane,
i mesi, gli anni, talmente
veloci che non riusciamo
neanche a percepire 
il correre del tempo.
E' già passato un anno?
Ci chiediamo increduli
mentre chi ci vuol bene
festeggia con noi
il compleanno
con una torta dove,
per delicatezza,
è stata posta
 una sola candelina.

martedì 18 ottobre 2016

RICORDO DI FEBBRAIO.Tre semafori rossi.

RICORDO di FEBBRAIO         di Maurizio Lodovichetti
Tre semafori rossi

Che non fosse stata costruita in un posto felice, lo si disse sin dall’inizio.
Posizionata antistante una brutta curva a gomito, ha di fronte una piccola piazzola, con tanto di olmi regolamentari. Infilarsi lì con l’automobile è sempre stato un poker, tanto che scontri frontali o tamponamenti sono all’ordine del giorno.
Si è soliti pensare che i binari debbano raggiungere il punto dove sorge la stazione, non il contrario; ebbene: sembrava proprio che a Fano avesse prevalso la regola del contrario.
Quattro binari, di cui solo due utilizzati con una certa frequenza, gli altri adibiti ai soli treni locali, o ai carri merce; spesso lasciati lì per giorni, talora per settimane, come dimenticati.
“Bell e prest se scord’ne anca de me; tutti” pensava un uomo, completamente immerso nel cappottone pesante e con il bavero alzato. Sigaretta in bocca, barba non fatta da due giorni. Era terribilmente infreddolito in quel solito mattino del solito febbraio, con la nebbia che saliva dagli orti Garibaldi e la tristezza che, da tempo immemore, gli avvolgeva il cuore. Non glie ne andava proprio di pensare a qualcosa, né di guardarsi attorno.
Era stanco, molto stanco. Di tutto.
Erano appena le sei e mezza, tuttavia l’alba non mostrava l’intenzione di rischiarare l’ennesima nuova giornata; i lampioni della stazione, persi e solitari, rischiaravano con una brutta luce gialla una pensilina semideserta dove quell’uomo, e pochi altri in partenza, stava gelando dal freddo.
Due passi! Pochi passi per non lasciarsi andare nei ricordi, per fare qualcosa. Per urtare una persona che, con il suo stesso identico umore, si era fermata appena dietro.
Scusarsi fu un attimo, capire che vivevano gli stessi pensieri fu un istante.
Ritenne non fosse il caso di mettersi a parlare oltre alle scuse di rito, ma le sue labbra, trasgredendo ordini superiori, si mossero ugualmente.
“Lei du è c’va?”

“Cattolica, vag a Catolica” rispose la donna, il cui viso emergeva a malapena da un collo di falso pelo di volpe. Un viso minuto, dalla pelle bianchissima anche a cagione del freddo. Appena un po’ di rossetto; appena un po’.
Me par che ce sìn visti qualca altra volta…” disse lui azzardando neanche più di tanto, poiché, per quanto non incline a guardarsi intorno, ricordava di averla già notata.
“C’è casi” rispose mestamente lei, “C’è casi”
A quel punto sarebbero capitate a misura frasi di consuetudine: sul tempo, sul freddo… ma lui non parlò, anzi fu lei a chiedere:
“Lei du è c’va?”
“Lavor a Rimini; al cunsorsi de Rimini” e aggiunse con un sospiro “Da trent’ann.”
Gettò a terra il mozzicone di sigaretta prima di concludere “E manca i la fag de arnì a Fan”
“J vag a fa’ le pulisi’ a Catolica, in t’un albergo”
“D’inverne?” obiettò lui
“El mia è apert tutt l’ann” chiarì alzando lo sguardo per guardarlo negli occhi.
I binari riflettevano stranamente. Quelle magiche parallele che si perdevano nella notte, sembravano risentire della luce che brillava negli occhi di due persone in piedi di fianco a loro, accomunate dalla pena.
Bianchissima, fredda e molesta, un’altra luce proveniva da un faro piazzato su una torretta dello scalo merci illuminando -con un che di sinistro- tutta la zona. In lontananza, annegati tra la nebbia, tre semafori dalla luce rossa segnalavano l’impossibilità di procedere.
“Per no’ è rosc, è semper rosc” sussurrò lui guardandoli e facendosi un po’ più vicino alla sconosciuta, sino a quando i loro cappotti non si toccarono.
“Mo en ha da essa semper daxì, en pòl essa semper daxì.” rispose la donna, con lo sguardo fisso, perso nella stessa direzione.
Il ronzio di un vecchio neon faceva loro un po’ di compagnia nel silenzio spettrale di una stazione ferroviaria in una notte d’inverno; ogni tanto la sirena della nebbia emetteva una frequenza bassa e lamentosa, quasi a sottolineare la malasorte destinata a quei due.
Non videro che, improvvisamente, uno dei tre fari era diventato verde, e che nello stesso istante, riservando loro un piccolo regalo, cominciò ad albeggiare. Come quando accadono strane coincidenze, una campanella si mise a suonare annunciando l’arrivo del convoglio proveniente da Ancona; come tutti i giorni, o quasi tutti.
Il treno si fermò, interrompendo il suo baccano infernale e dando spazio ad altri rumori: sibili di aria compressa, finestrini che si abbassavano, qualcuno che chiama, sbattere di portiere e calpestio di passi veloci… ma sopra tutti questi -curiosamente- la campanella continuava, inutilmente, ad annunciare l’arrivo di un treno già giunto.
Quando finalmente anch’essa tacque, quei due se n’erano andati assieme.
Per un’altra strada.
Per sempre.



venerdì 14 ottobre 2016

MALINCONIA...

Mi assale qualche volta
senza preavviso
una strana malinconia
che mescola ricordi,
dolci pensieri, visi familiari,
luoghi amati e abbandonati,
il tempo che passa,
parole che mi riempivano
il cuore appena pronunciate;
niente di speciale
nessun termine ad effetto.
Una parola ricca di bontà
e di altruismo.
E null'altro.

martedì 11 ottobre 2016

RICORDO DI GENNAIO.

La fantasia nasce dalla realtà.
Spesso si dimentica che la realtà supera sempre, per sua natura, la fantasia più sfrenata.
E sono Parole.
Nell’aria.
Che ti colpiscono e ti entrano dentro.
E da una parola altre parole, che creano un concetto, una situazione, un evento.
Creano un’anima.
Immersa in momenti di vita.
Concetti banali tu dici, ma solo perché ascolti senza sentire.
Senza capire che è ciò che resta delle scaglie di una vita qualsiasi.

Sono Ritratti dell’Anima.

RICORDO DI GENNAIO
Un peccato del mattino.

“Mo che ora è!?” si chiese non appena l’occhio sinistro, l’unico aperto ed ancora appannato, spaziava nella camera da letto. Il destro non tardò molto a venire in soccorso del collega. Ecco: con entrambi in funzione la stanza diventava sempre più nitida, a fuoco. Lentamente tutto il resto del corpo si stava risvegliando, solo le gambe sembrava non ne avessero gran che voglia fingendo di non essersi accorte della fine del sonno.
“Me fai veda che ora è!” ripetè tra sé e sé il sessantaduenne, cercando a tastoni l’orologio da polso finito da qualche parte, confuso tra le cose che si lasciano sul comodino ogni sera, prima di coricarsi
Di fianco a lui l’altra persona dormiva.
Incurante. Se si fosse svegliata sarebbe passata dall’incuranza all’insofferenza; ma non si svegliò, neppure al rumore prodotto dalla complessa ricerca dell’orologio.
Le undici e tre quarti.
Del mattino, a giudicare dalla luce che entrava nella stanza.
“Oh cas! E cum’è ch’è daxì tardi?”
Era evidente che la parte di cervello, deputata alla gestione della memoria, non aveva ancora preso servizio. Restò un attimo con l’orologio in mano, guardandolo con aria interrogativa.
“Ah già! Ieri sera era l’ultim d’l’ann! Ecc perché stamatina è daxì tardi”
Rimise (quasi gettò) l’orologio dove l’aveva preso e risistemò il braccio sotto le coperte.
“Ieri sera era l’ultim d’l’ann; e già, el cenòn, i’amic, el vin, la grappa, la musica, el ball… e pu’ gli auguri, i bac, la lenticchia… eh, i’auguri. De quei n’avrìa b’sogn ‘na quintalata!”
La stanza sembrava più ostile del solito; non era più l’alcova di un tempo perché  aveva preso le connotazioni di una camera d’albergo, dove ognuno di loro due gettava gli indumenti prima, ed i corpi poi. Tutto era rigorosamente alla rinfusa, quasi come se, rientrando a casa, entrambi fossero rimasti indispettiti dal doverlo fare.
“Sensa de lia en me so’ divertìt per nient! Mo cum faceva a purtalla de dietra? Ancora non se pòl, ce vòl pasiensa; mo quanta?”
L’altra, al suo fianco, continuava a dormire. Ricordò di non averla sentita rientrare; evidentemente era rincasata più tardi.

“Mo j a che ora so’ ar’nùt? Dònca aspetta… le tre? O le quattre? E pu cu gambia? Nient, en gambia  nient”-
Come risveglio nella prima giornata dell’anno non era proprio male!
Dove fosse stato la sera prima e con chi, costituiva un dettaglio così irrilevante che la memoria aveva deciso di non mantenerlo nella rete neuronica. Era uscito, aveva mangiato, bevuto… forse ballato. O era rimasto sempre da solo?
“So’ ar’mast da per me tra mès tutta c’la gent” gli venne spontaneo pensare.
Lontano si sentì la sirena di una ambulanza e, subito dopo, dall’appartamento contiguo filtrarono le note della sigla televisiva di quella che una volta chiamavano “Eurovisione”.
“C’è el cuncert del prim d’l’ann, da Vienna; e pensà che me piaceva tant!”
La sigla tacque e nel silenzio ritornò, assordante, il mormorio del respiro di chi gli dormiva accanto.
Girò la testa, lentamente, verso la moglie.
La guardò.
Il viso di lei aveva perso l’abituale tono severo della veglia, ma due piccole rughe, posizionate attorno alla bocca semiaperta, tradivano una non lieve tensione interiore.

“Però” pensò il sessantaduenne prima di riprendere sonno “che pecat!".

sabato 1 ottobre 2016

SUL FAR DELLA SERA...

Sul far della sera
quando i pensieri
vanno oltre l'orizzonte
e lo sguardo 
segue il movimento lieve
del mare che sembra
sorridere al cielo,
l'attimo di silenzio
che ti accoglie
mentre il sole tramonta
è come una carezza
che ti porta lontano
nel tempo.