martedì 18 ottobre 2016

RICORDO DI FEBBRAIO.Tre semafori rossi.

RICORDO di FEBBRAIO         di Maurizio Lodovichetti
Tre semafori rossi

Che non fosse stata costruita in un posto felice, lo si disse sin dall’inizio.
Posizionata antistante una brutta curva a gomito, ha di fronte una piccola piazzola, con tanto di olmi regolamentari. Infilarsi lì con l’automobile è sempre stato un poker, tanto che scontri frontali o tamponamenti sono all’ordine del giorno.
Si è soliti pensare che i binari debbano raggiungere il punto dove sorge la stazione, non il contrario; ebbene: sembrava proprio che a Fano avesse prevalso la regola del contrario.
Quattro binari, di cui solo due utilizzati con una certa frequenza, gli altri adibiti ai soli treni locali, o ai carri merce; spesso lasciati lì per giorni, talora per settimane, come dimenticati.
“Bell e prest se scord’ne anca de me; tutti” pensava un uomo, completamente immerso nel cappottone pesante e con il bavero alzato. Sigaretta in bocca, barba non fatta da due giorni. Era terribilmente infreddolito in quel solito mattino del solito febbraio, con la nebbia che saliva dagli orti Garibaldi e la tristezza che, da tempo immemore, gli avvolgeva il cuore. Non glie ne andava proprio di pensare a qualcosa, né di guardarsi attorno.
Era stanco, molto stanco. Di tutto.
Erano appena le sei e mezza, tuttavia l’alba non mostrava l’intenzione di rischiarare l’ennesima nuova giornata; i lampioni della stazione, persi e solitari, rischiaravano con una brutta luce gialla una pensilina semideserta dove quell’uomo, e pochi altri in partenza, stava gelando dal freddo.
Due passi! Pochi passi per non lasciarsi andare nei ricordi, per fare qualcosa. Per urtare una persona che, con il suo stesso identico umore, si era fermata appena dietro.
Scusarsi fu un attimo, capire che vivevano gli stessi pensieri fu un istante.
Ritenne non fosse il caso di mettersi a parlare oltre alle scuse di rito, ma le sue labbra, trasgredendo ordini superiori, si mossero ugualmente.
“Lei du è c’va?”

“Cattolica, vag a Catolica” rispose la donna, il cui viso emergeva a malapena da un collo di falso pelo di volpe. Un viso minuto, dalla pelle bianchissima anche a cagione del freddo. Appena un po’ di rossetto; appena un po’.
Me par che ce sìn visti qualca altra volta…” disse lui azzardando neanche più di tanto, poiché, per quanto non incline a guardarsi intorno, ricordava di averla già notata.
“C’è casi” rispose mestamente lei, “C’è casi”
A quel punto sarebbero capitate a misura frasi di consuetudine: sul tempo, sul freddo… ma lui non parlò, anzi fu lei a chiedere:
“Lei du è c’va?”
“Lavor a Rimini; al cunsorsi de Rimini” e aggiunse con un sospiro “Da trent’ann.”
Gettò a terra il mozzicone di sigaretta prima di concludere “E manca i la fag de arnì a Fan”
“J vag a fa’ le pulisi’ a Catolica, in t’un albergo”
“D’inverne?” obiettò lui
“El mia è apert tutt l’ann” chiarì alzando lo sguardo per guardarlo negli occhi.
I binari riflettevano stranamente. Quelle magiche parallele che si perdevano nella notte, sembravano risentire della luce che brillava negli occhi di due persone in piedi di fianco a loro, accomunate dalla pena.
Bianchissima, fredda e molesta, un’altra luce proveniva da un faro piazzato su una torretta dello scalo merci illuminando -con un che di sinistro- tutta la zona. In lontananza, annegati tra la nebbia, tre semafori dalla luce rossa segnalavano l’impossibilità di procedere.
“Per no’ è rosc, è semper rosc” sussurrò lui guardandoli e facendosi un po’ più vicino alla sconosciuta, sino a quando i loro cappotti non si toccarono.
“Mo en ha da essa semper daxì, en pòl essa semper daxì.” rispose la donna, con lo sguardo fisso, perso nella stessa direzione.
Il ronzio di un vecchio neon faceva loro un po’ di compagnia nel silenzio spettrale di una stazione ferroviaria in una notte d’inverno; ogni tanto la sirena della nebbia emetteva una frequenza bassa e lamentosa, quasi a sottolineare la malasorte destinata a quei due.
Non videro che, improvvisamente, uno dei tre fari era diventato verde, e che nello stesso istante, riservando loro un piccolo regalo, cominciò ad albeggiare. Come quando accadono strane coincidenze, una campanella si mise a suonare annunciando l’arrivo del convoglio proveniente da Ancona; come tutti i giorni, o quasi tutti.
Il treno si fermò, interrompendo il suo baccano infernale e dando spazio ad altri rumori: sibili di aria compressa, finestrini che si abbassavano, qualcuno che chiama, sbattere di portiere e calpestio di passi veloci… ma sopra tutti questi -curiosamente- la campanella continuava, inutilmente, ad annunciare l’arrivo di un treno già giunto.
Quando finalmente anch’essa tacque, quei due se n’erano andati assieme.
Per un’altra strada.
Per sempre.



Nessun commento:

Posta un commento