RICORDO di
FEBBRAIO di Maurizio Lodovichetti
Tre semafori rossi
Che non fosse
stata costruita in un posto felice, lo si disse sin dall’inizio.
Posizionata
antistante una brutta curva a gomito, ha di fronte una piccola piazzola, con
tanto di olmi regolamentari. Infilarsi lì con l’automobile è sempre stato un
poker, tanto che scontri frontali o tamponamenti sono all’ordine del giorno.
Si è soliti
pensare che i binari debbano raggiungere il punto dove sorge la stazione, non
il contrario; ebbene: sembrava proprio che a Fano avesse prevalso la regola del
contrario.
Quattro
binari, di cui solo due utilizzati con una certa frequenza, gli altri adibiti
ai soli treni locali, o ai carri merce; spesso lasciati lì per giorni, talora
per settimane, come dimenticati.
“Bell e prest
se scord’ne anca de me; tutti” pensava un uomo, completamente immerso nel
cappottone pesante e con il bavero alzato. Sigaretta in bocca, barba non fatta
da due giorni. Era terribilmente infreddolito in quel solito mattino del solito
febbraio, con la nebbia che saliva dagli orti Garibaldi e la tristezza che, da
tempo immemore, gli avvolgeva il cuore. Non glie ne andava proprio di pensare a
qualcosa, né di guardarsi attorno.
Era stanco,
molto stanco. Di tutto.
Erano appena
le sei e mezza, tuttavia l’alba non mostrava l’intenzione di rischiarare
l’ennesima nuova giornata; i lampioni della stazione, persi e solitari,
rischiaravano con una brutta luce gialla una pensilina semideserta dove
quell’uomo, e pochi altri in partenza, stava gelando dal freddo.
Due passi!
Pochi passi per non lasciarsi andare nei ricordi, per fare qualcosa. Per urtare
una persona che, con il suo stesso identico umore, si era fermata appena
dietro.
Scusarsi fu
un attimo, capire che vivevano gli stessi pensieri fu un istante.
Ritenne non
fosse il caso di mettersi a parlare oltre alle scuse di rito, ma le sue labbra,
trasgredendo ordini superiori, si mossero ugualmente.
“Lei du è
c’va?”
“Cattolica,
vag a Catolica” rispose la donna, il cui viso emergeva a malapena da un collo
di falso pelo di volpe. Un viso minuto, dalla pelle bianchissima anche a
cagione del freddo. Appena un po’ di rossetto; appena un po’.
Me par che ce
sìn visti qualca altra volta…” disse lui azzardando neanche più di tanto,
poiché, per quanto non incline a guardarsi intorno, ricordava di averla già
notata.
“C’è casi”
rispose mestamente lei, “C’è casi”
A quel punto
sarebbero capitate a misura frasi di consuetudine: sul tempo, sul freddo… ma
lui non parlò, anzi fu lei a chiedere:
“Lei du è
c’va?”
“Lavor a
Rimini; al cunsorsi de Rimini” e aggiunse con un sospiro “Da trent’ann.”
Gettò a terra
il mozzicone di sigaretta prima di concludere “E manca i la fag de arnì a Fan”
“J vag a fa’
le pulisi’ a Catolica, in t’un albergo”
“D’inverne?”
obiettò lui
“El mia è
apert tutt l’ann” chiarì alzando lo sguardo per guardarlo negli occhi.
I binari
riflettevano stranamente. Quelle magiche parallele che si perdevano nella
notte, sembravano risentire della luce che brillava negli occhi di due persone
in piedi di fianco a loro, accomunate dalla pena.
Bianchissima,
fredda e molesta, un’altra luce proveniva da un faro piazzato su una torretta
dello scalo merci illuminando -con un che di sinistro- tutta la zona. In
lontananza, annegati tra la nebbia, tre semafori dalla luce rossa segnalavano
l’impossibilità di procedere.
“Per no’ è
rosc, è semper rosc” sussurrò lui guardandoli e facendosi un po’ più vicino
alla sconosciuta, sino a quando i loro cappotti non si toccarono.
“Mo en ha da
essa semper daxì, en pòl essa semper daxì.” rispose la donna, con lo sguardo
fisso, perso nella stessa direzione.
Il ronzio di
un vecchio neon faceva loro un po’ di compagnia nel silenzio spettrale di una
stazione ferroviaria in una notte d’inverno; ogni tanto la sirena della nebbia
emetteva una frequenza bassa e lamentosa, quasi a sottolineare la malasorte
destinata a quei due.
Non videro
che, improvvisamente, uno dei tre fari era diventato verde, e che nello stesso
istante, riservando loro un piccolo regalo, cominciò ad albeggiare. Come quando
accadono strane coincidenze, una campanella si mise a suonare annunciando
l’arrivo del convoglio proveniente da Ancona; come tutti i giorni, o quasi
tutti.
Il treno si
fermò, interrompendo il suo baccano infernale e dando spazio ad altri rumori:
sibili di aria compressa, finestrini che si abbassavano, qualcuno che chiama,
sbattere di portiere e calpestio di passi veloci… ma sopra tutti questi
-curiosamente- la campanella continuava, inutilmente, ad annunciare l’arrivo di
un treno già giunto.
Quando
finalmente anch’essa tacque, quei due se n’erano andati assieme.
Per un’altra
strada.
Per sempre.
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