RICORDO di
MARZO
Dedicato
Non c’era
verso di farlo ragionare!
Quando con
lui si toccava un qualsiasi argomento, la mente gli partiva per la tangente e
ricominciava a macinare quintali di pensieri e considerazioni; tutti
rigorosamente a tonalità negativa e diligentemente legati ad un suo
privatissimo e famigliare evento del passato.
“Da du’ se c’mincia, tant
lù va semper a f’nì malì!” commentava recentemente una persona che l’aveva
visto camminare lento, a testa bassa, lungo i Passeggi, verso le sette di un
mattino di
fine inverno
che presagiva una giornata fredda e umida, grigia come una lastra di acciaio
anodizzato.
Un
semplicissimo “Ciao, cum va?” era sufficiente a scatenare rabbuianti
elucubrazioni mentali che, come tori impazziti, cominciavano a correre
nell’arena della sua mente, pronti ad ogni devastazione.
Viveva solo,
usciva raramente. Ogni mattina si recava al lavoro, impeccabile e stimato nel
suo ruolo; il resto del tempo lo utilizzava restando in casa.
Nessuno sa a
far cosa.
“En se sent
mai nient, manca la televisiòn acesa” riferiva un vicino di casa, che così
continuava “Per essa precisi è la luc d’la camera da lett che, in ti’ mument
più strani, la vedi acesa travèrs le persian: alle tre d’la matina, alle sett
del pumerigg… mo più spess de nott, quand armàn acesa per le or”
“Prò en da’
fastidi ma nisciùn; se ved sol che en ha voja de discurra” si affrettava ad
aggiungere la moglie.
Era calmo e
tranquillo; sempre, anche quando andava a comperare il pane alla CRAI in via
Garibaldi; gentilissimo al limite della piaggeria, taciturno al limite della
tomba.
Lo
conoscevano tutti e proprio per questo erano in pochi ad arrischiarsi di
chiedergli qualcosa: sarebbe ripiombato nella tristezza più profonda
trascinandoci l’interlocutore.
Parlando con
voce bassa e roca, esordiva sempre con un: “Cu t’ho da di’: ma’ me…” e
l’incauto inquisitore capiva al volo di essersi messo nei guai con le proprie
mani e che altro non gli restava che cercare una improbabile via di scampo.
“En è ch’è
palòs, ma che te mett adòs ‘na tristessa che metà basta” diceva uno
“Avrà anca
ragiòn, ma adess basta, èn pasàti tanti ann!” aggiungeva l’altro
“E pù i fioj
urmai èn grandi e sistemati; e pu’ anca lu’ pudeva arfàss, in t’una qualca
maniera!” suggeriva un terzo.
Il quarto del
gruppetto di uomini seduti, quasi distesi -tanto sono basse- in una panchina
dei giardini del Luigi Rossi, rimaneva stranamente silenzioso. Al pari degli
altri lo guardava passare ma… evitava ogni commento.
“Te cu’
dici?” chiese a bruciapelo uno di loro.
Adoperò un
esiguo filo di voce per rispondere con un semplicissimo:
“Che tocca
stà sitti”, mentre un lieve dolore gli saliva dallo stomaco sino alla metà del
collo, come un piccolo verme che, con incedere lento, risale la mela che
intende penetrare.
Sapeva di
essere, suo malgrado, uno di quelli -dei tanti- che frustavano i tori scatenati
nella povera mente dell’uomo solitario; la sua coscienza non gli dava
giustificazione nè perdono al pensiero che quella volta, al tempo dei fatti,
lui neanche sapeva chi fosse quel tale che adesso non parlava più e aveva
scelto di vegetare piuttosto che vivere.
Guardandolo
mentre si allontanava, annuì con un movimento impercettibile della testa.
“Che tocca
stà semper sitti”, ribadì solo.
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