martedì 25 ottobre 2016

RICORDO DI MARZO



RICORDO di MARZO
Dedicato

Non c’era verso di farlo ragionare!
Quando con lui si toccava un qualsiasi argomento, la mente gli partiva per la tangente e ricominciava a macinare quintali di pensieri e considerazioni; tutti rigorosamente a tonalità negativa e diligentemente legati ad un suo privatissimo e famigliare evento del passato.
“Da du’ se c’mincia, tant lù va semper a f’nì malì!” commentava recentemente una persona che l’aveva visto camminare lento, a testa bassa, lungo i Passeggi, verso le sette di un mattino di 
fine inverno che presagiva una giornata fredda e umida, grigia come una lastra di acciaio anodizzato.
Un semplicissimo “Ciao, cum va?” era sufficiente a scatenare rabbuianti elucubrazioni mentali che, come tori impazziti, cominciavano a correre nell’arena della sua mente, pronti ad ogni devastazione.
Viveva solo, usciva raramente. Ogni mattina si recava al lavoro, impeccabile e stimato nel suo ruolo; il resto del tempo lo utilizzava restando in casa.
Nessuno sa a far cosa.
“En se sent mai nient, manca la televisiòn acesa” riferiva un vicino di casa, che così continuava “Per essa precisi è la luc d’la camera da lett che, in ti’ mument più strani, la vedi acesa travèrs le persian: alle tre d’la matina, alle sett del pumerigg… mo più spess de nott, quand armàn acesa per le or”
“Prò en da’ fastidi ma nisciùn; se ved sol che en ha voja de discurra” si affrettava ad aggiungere la moglie.
Era calmo e tranquillo; sempre, anche quando andava a comperare il pane alla CRAI in via Garibaldi; gentilissimo al limite della piaggeria, taciturno al limite della tomba.
Lo conoscevano tutti e proprio per questo erano in pochi ad arrischiarsi di chiedergli qualcosa: sarebbe ripiombato nella tristezza più profonda trascinandoci l’interlocutore.
Parlando con voce bassa e roca, esordiva sempre con un: “Cu t’ho da di’: ma’ me…” e l’incauto inquisitore capiva al volo di essersi messo nei guai con le proprie mani e che altro non gli restava che cercare una improbabile via di scampo.
“En è ch’è palòs, ma che te mett adòs ‘na tristessa che metà basta” diceva uno
“Avrà anca ragiòn, ma adess basta, èn pasàti tanti ann!” aggiungeva l’altro
“E pù i fioj urmai èn grandi e sistemati; e pu’ anca lu’ pudeva arfàss, in t’una qualca maniera!” suggeriva un terzo.
Il quarto del gruppetto di uomini seduti, quasi distesi -tanto sono basse- in una panchina dei giardini del Luigi Rossi, rimaneva stranamente silenzioso. Al pari degli altri lo guardava passare ma… evitava ogni commento.
“Te cu’ dici?” chiese a bruciapelo uno di loro.
Adoperò un esiguo filo di voce per rispondere con un semplicissimo:
“Che tocca stà sitti”, mentre un lieve dolore gli saliva dallo stomaco sino alla metà del collo, come un piccolo verme che, con incedere lento, risale la mela che intende penetrare.
Sapeva di essere, suo malgrado, uno di quelli -dei tanti- che frustavano i tori scatenati nella povera mente dell’uomo solitario; la sua coscienza non gli dava giustificazione nè perdono al pensiero che quella volta, al tempo dei fatti, lui neanche sapeva chi fosse quel tale che adesso non parlava più e aveva scelto di vegetare piuttosto che vivere.
Guardandolo mentre si allontanava, annuì con un movimento impercettibile della testa.
“Che tocca stà semper sitti”, ribadì solo.





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