martedì 27 dicembre 2016

RICORDO DI NOVEMBRE

RICORDO di NOVEMBRE
Con nessuno al mondo.  Storia di Vali.

Quand’era giovane, nella sua carta di identità, sotto la voce “professione”, campeggiava l’anonima e neutra dicitura “impiegata”; anonima come lei, neutra come le sue emozioni.
“Quand Gesù Crist ha près ‘na manciata de cristian per butalla in t’el mond, ha tiràt su anca ma me! Mo chisà per cu fa?!”; ed aggiungeva un sano “…mo va’ là!” che era il sua intercalare preferito.
La chiamavano Vali; da “va’ là”.
Forse.
Non era sposata, non era accompagnata. Viveva sola, sempre attorniata dalle amiche con le quali parlava, scherzava, litigava o giocava alle carte.
Aveva settant’anni suonati e la vedevi sempre con la bocca aperta, perché parlava in continuazione, di tutto e quindi di niente.
“Me piac a discurra” ammetteva candidamente, ma ometteva di aggiungere “daxì la gent en me chied nient e j i la mett cum me par.”
Si diceva abitasse dalle parti dei Piattelletti e che quando chiudeva l’uscio di casa, era come se un pesante sipario di impenetrabile riservatezza piombasse su di lei. Si diceva anche che in quella casa non fosse mai entrato nessuno, neppure il prete per la benedizione di Pasqua, nemmeno il dottore quando lei aveva la febbre.
Benché amasse la compagnia, la disertava regolarmente quando le amiche si recavano al cimitero per la visita ai defunti.  Non le accompagnava mai.
“Me par persìn impusibìl che en c’i’ha ‘ma nisciùn: el pader, la mader… un fratèl…” si sfogava con le amiche una di loro, in un anonimo mattino di novembre del 1959, mentre, lentamente ed a piedi, risalivano la strada di fianco la Liscia per andare verso il camposanto. Un’altra, abbondante nella mole, pur accusando qualche difficoltà a parlare mentre camminava, volle aggiungere:
“Daxì alegra, daxì de cumpagnìa… epùr de lia en parla mai, ansi: gambia discors…”
Come ascoltasse quelle valutazioni, Vali ripeteva sovente a sé stessa e agli altri: “J so’ ‘na donna sensa pasàt; quell en m’l’avèt da chieda, perché m’el so’ scurdàt. E da un bel pèss!”
Non era di Fano, vi era giunta dietro l’accoglienza di una domanda di trasferimento. Per sapere donde provenisse bisognava fare delle ricerche, ma nessuno ne aveva gran voglia. E poi era passato tanto tempo, tanto tempo che aveva imparato alla perfezione il dialetto dei fanesi; naturalmente dimenticandosi il proprio, assieme al passato.
Una cosa di lei era davvero strana: che spariva letteralmente di circolazione durante le feste comandate, soprattutto a Natale ed a Pasqua, per ricomparire puntualmente subito dopo e senza sentirsi in dovere di fornire spiegazione alcuna. Rimaneva tappata in casa per spolverare, prendere in mano o, più semplicemente, accarezzare con gli occhi e col pensiero, una infinita serie di piccoli oggetti maschili: un pettinino da tasca, una chiave, un fazzoletto da naso, una caramellina Charms al gusto di caffè ed ancora avvolta nella sua carta trasparente; finanche un mozzicone di sigaretta senza filtro, così contorto e bruciacchiato che sembrava fosse stato schiacciato con rabbia su uno di quegli anonimi posacenere bianchi con la scritta “Martini” di fianco.
Rimaneva lì tutto il periodo delle feste, dedicando loro ogni attimo del suo tempo. Talvolta ne spostava uno, di pochi millimetri, ponendoci un’attenzione quasi religiosa, per poi riposizionarlo dov’era prima, sempre con tocchi leggeri, come nel timore di svegliarli. Anche se la commozione non faceva più parte del suo repertorio emozionale, ogni tanto si sorprendeva che la saliva le si fermasse in gola, trovando una strettoia insormontabile nei muscoli contratti che rompono la voce e preparano al pianto.
Guardando quegli oggetti maschili dava licenza alla mente di rivolgersi al passato, ai ricordi, ai frammenti di parole e, soprattutto, ai silenzi del dopo. Ed allora, magicamente, rivedeva tutti i suoi uomini, uno ad uno: erano tantissimi. Li aveva frequentati un po’ per necessità, un po’ per amore e mai -come si sostiene comunemente- per professione. A suo modo li aveva amati; li aveva ascoltati ed accarezzati, sempre, tutti. Sentiva di amarli quando li spogliava, li amava profondamente quando, nell’intenzione di tornare al loro mondo, li aiutava a rimettersi indosso i panni. Vali, che non aveva altro mondo dove andare, del suo amava il doloroso anonimato, la curiosa neutralità dei suoi affetti.
Quegli uomini, sfuggenti compagni della sua vita, l’hanno amata così tanto che, di lei, non ne hanno mai parlato.

Con nessuno al mondo. 

venerdì 23 dicembre 2016

IL TRENO CHE NON PASSA MAI

Seduto nella panchina
di marmo della stazione
aspettava un treno
che non arrivava mai.
Si alternavano le stagioni,
il sole tiepido, il caldo,
le foglie morte d'autunno,
il freddo dell'inverno.
 Il treno non arrivava
e non passava mai.
Aveva forse 
sbagliato stazione?
O il luogo?
No, era assolutamente
certo di questo.
E allora...
Avrebbe atteso ancora,
seduto e immobile
in quella panchina di 
marmo della stazione.
Tanto, prima o poi,
avrebbe sentito il fischio,
il cigolìo delle ruote
che frenavano sui binari
e sarebbe finalmente 
salito per andare
dove aveva sognato
per tutta la vita.

martedì 20 dicembre 2016

RICORDO DI DICEMBRE

RICORDO di DICEMBRE
Notte di Natale

Spesso non riuscivo a capirlo, ma quando ci riuscivo era bellissimo vivere con uno così.
Mangiare, dormirgli vicino, passeggiare; soprattutto passeggiare!
Oh, quant’era bello andare in giro assieme!
Decideva sempre lui dove andare, testardo come una capra! Sempre la stessa strada, monotona come lo scorrere delle mie ore, quando rimanevo steso sul divano aspettando che tornasse.
Ogni tanto cambiava itinerario ed allora lo guardavo chiedendogli: “Che cosa ti è successo stavolta?” e lui… … mi sorrideva? Non lo so, credo non sorridesse mai a nessuno, a me bastava ascoltare il tono della voce per capire se era sereno.
Quando gli girava storto non comprendevo se fosse arrabbiato con me o con il resto del mondo e nemmeno riuscivo a capire la ragione dei suoi repentini cambiamenti di orario, quando mi lasciava a lungo lì, da solo, come uno scemo.
La sua stupidità non finiva di stupirmi se solo pensavo alla difficoltà che incontrava nel comprendere che il mio posto era accanto a lui che mangiava, leggeva, fumava o dormiva; tutte cose che faceva con me steso in terra, messo in un posto da dove potevo controllare agevolmente se qualcuno entrava in casa. Lo facevo in forza di un istinto appreso chissà quando; non mi costava fatica alcuna, anzi: provavo un gran piacere nel proteggere quell’individuo lunatico come tutti gli umani, o quasi tutti. Lo stesso istinto mi ripeteva ogni giorno che dovevo amarlo, sempre, disinteressatamente e ad ogni costo. Lui era il mio capo branco.
Ed io l’ho amato, sempre, in ogni caso, ad ogni costo.
L’ho amato per niente in cambio, proprio come Vali, un umano che ho conosciuto quassù.
E quassù mi è stato detto che un cane, come io sono stato in terra, ama l’uomo come gli umani vorrebbero amarsi tra loro; ma non riescono, perché sperano di essere riamati.
Noi, io, no.
Non mi sono mai aspettato niente in cambio, nemmeno quella notte di dicembre piena di luci, di colori e di odori nuovi, quando mi sono sentito male e, col fiato alla gola, sono salito nella sua camera per dirgli  che me ne sarei andato senza di lui lungo un percorso tutto mio, e senza quell’odioso guinzaglio al collo.
Mi ha guardato senza comprendere, mentre, nell’ultimo istante concessomi, riuscivo ad amare persino la sua innata, desolatamente umana, incapacità di capire l’amore.
Stupido d’un uomo!





sabato 17 dicembre 2016

LE STESSE COSE...

Le stesse parole,
gli stessi passi,
gli stessi percorsi,
 mentre parlano
pensano ad altro
distratti o annoiati,
lei guarda le vetrine,
lui pensa alla commessa
del negozio che ha
appena superato;
abbigliamento,cellulari,
scarpe, biancheria intima
poi ancora abbigliamento,
pizzeria e gelateria,
yogurteria e bar...
a rompere la monotonìa
l'incontro con una coppia amica
ma vanno di fretta,
poche parole, sorriso e saluti
e allora riprendono 
il cammino.
Lei guarda ancora le vetrine...
lui pensa di nuovo
 alla commessa del negozio.
Fino a che non è ora
di tornare a casa
per guardare la TV.





giovedì 15 dicembre 2016

CADONO LACRIME...

Cadono lacrime
dai rami spogli e morti
degli alberi 
appena illuminati
dalla luce fioca
dei lampioni.
Piangono 
o rimpiangono
i caldi giorni d'estate
quando le foglie
e i fiori colorati
vestivano di bellezza
i loro corpi.
Si aggiunge tristezza
a tristezza
in queste giornate
di nebbia
che tutto copre
e tutto appiattisce
in un unico, smorto colore.

martedì 13 dicembre 2016

RICORDO DI OTTOBRE

RICORDO di OTTOBRE
La piccola fiammiferaia del Politeama Cesare Rossi

Stazionava davanti al Politeama, dal giovedì alla domenica. Gli altri giorni no, perché, diceva, “Per c’la poca gent che va al cinema, en vàl manca la pena de prenda tutt ch’el fredd!”.
In qualche modo anche lei era nel mondo degli affari.
Alta un metro e basta, perennemente con un fazzolettone nero in testa come fosse reduce da una funzione funebre, le mani grandi come lo scurone di una finestra e le dita che avrebbero chiuso ermeticamente lo scarico del lavandino, tant’erano tozze.
Rimaneva tutto il pomeriggio seduta sopra non si sa bene sopra quale basamento, perché coperto da un sedere enorme e da un grembiule che definire abbondante sarebbe un eufemismo. Sulle ginocchia teneva una cesta in vimini con dentro, ordinatamente alla rinfusa, semi di zucca (le sementìn), noccioline, lupini e quant’altro potesse tornare utile da sgranocchiare durante la proiezione.
D’inverno, sistemato sotto la sottana, custodiva un vecchio barattolo di alici, di quelli bassi e larghi, al quale aveva applicato un rudimentale manico; al suo interno c’era della brace ardente, cosicché poteva scaldarsi nei lunghi freddi pomeriggi. Verso sera la brace si esauriva ed allora lei, con pazienza certosina, bruciava piccoli pezzi di carta da giornale (quasi sempre Grand Hotel -chissà poi perché-) nell’intento di ravvivare il calore del fuoco. Questa operazione era immancabilmente preceduta dalla richiesta di un fiammifero ad ogni cliente; le andava bene anche un cerino o uno svedese, la Ronson no, tanto non glie l’avrebbero prestata.
Forse per questo la chiamavano la piccola fiammiferaia, dove piccola indicava null’altro che la statura somatica.
La gente normale, prima di entrare, si fermava per le compere: dieci lire di sementine (un bicchiere da osteria), venti lire di noccioline (sempre un bicchiere da osteria perché -diceva lei- costavano di più) ed il resto (se c’era) veniva investito in lupini, gomme americane, caramelle, rotolini di liquirizia con pallina colorata al centro o stecche di liquirizia, che garantivano denti e bocca nera sino alla mattina seguente.
Non tutti si fermavano per le compere: i “signori” entravano lesti e si servivano nel bar annesso al cinema, dove potevano ordinare con tutta calma un caffè, un Aperol o un Chinotto per le signore; in ogni caso mai qualcosa da portare in sala. Non stava bene.
Lei, la fiammiferaia, non badava a loro; quando le passavano vicino, seguitava ad arrotolare con quelle manone la carta gialla, costruendo cartocci dove mettere le sementi; ma dentro il cartoccio non metteva solo quelle, quasi come per presentimento, ogni volta aggiungeva alla merce venduta una buona dose di rabbia.
Poi, un giorno di dicembre, quando ormai tutti -da tempo- eravamo abituati a quella sconosciuta quanto famigliare presenza, a qualcuno venne un’intuizione geniale: vendere quella merce alimentare senza alcun controllo costituiva un palese reato. Dicevano che c’era da ammalarsi mangiando quella roba! La donna (e quelle che come lei vendevano sementi davanti agli altri tre cinema di Fano) doveva sloggiare, magari cambiare mestiere.
Per far rispettare la legge si rivolsero ai vigili urbani i quali, a loro volta, fecero più volte la conta tra di loro, comandante escluso, per stabilire a chi spettasse eseguire quell’ingrato compito.
Come abbondantemente previsto, per i due designati l’operazione si mostrò di non facile esecuzione perchè c’era un gran bel discorrere con quelle quattro donne. Addirittura un vigile, avvicinatosi un po’ troppo al reo, si era buscato un clamoroso calcio nello stinco dalla donnetta del Cinema Corso, tra gli applausi degli astanti che, masticando sementine, assistevano alla curiosa sceneggiata.
Con la fiammiferaia del Politeama, a scanso di sorprese, misero in atto tutte le precauzioni del caso, non potendo tuttavia immaginare l’epilogo al quale la notifica avrebbe condotto.
La piccola fiammiferaia guardò i due in divisa e poi, impensierendoli non poco, si mise a frugare nelle tasche dell’ampio grembiule. Cosa celava? Una pistola? Un coltello? O magari una pietra, visto che abitava in fondo al cavalcavia dalle parti della Sassonia? Niente di tutto questo: estrasse un semplice, umile, fiammifero di legno, invecchiato dal tempo. Era così vecchio che il colore dello stelo si confondeva con quello della capocchia rendendo ardua la comprensione su quale fosse, delle due, l’estremità da strofinare per procedere alla accensione.
“El sapèt da quant’è che c’l’ho machì?” chiese ai due mostrandolo come un trofeo.
Quello più giovane stava per buttare là una data, ma venne tosto interrotto da quello più anziano: in certe situazioni era meglio non parlare, per non compromettersi.
E comunque lei, senza aspettare risposta, accese il fiammifero strofinandolo doverosamente sul muro, ove lasciò una lunga striscia scura (già questo costituiva reato); curò con dovizia che la fiamma prendesse vigore tra le sue manone chiuse a conchiglia come per proteggere qualcosa di molto importante e rimase lì, a guardarla come si guarda un’Ostia Benedetta prima di portarla alla bocca.
Fissava la fiamma che gettava piccoli bagliori sul suo viso, esaltandone le rughe, sotto gli occhi attenti dei vigili urbani, sempre pronti ad intervenire in caso si fossero appalesati gli estremi di un pericolo pubblico.
Quando il fiammifero si spense… la donna scomparve dalla vista di quei due che, si seppe in seguito, nel loro rapporto non osarono scrivere nulla su quanto avevano assistito.
Lei, la piccola fiammiferaia del Politeama Cesare Rossi, sparì per sempre e nessuno, pur rimpiangendola, ne ebbe notizia alcuna.
Tutto avvenne come accade ai ritratti dell’anima, che svaniscono senza lasciare traccia.
Agli altri.



mercoledì 7 dicembre 2016

TRA NEBBIA E MARE

Tra nebbia e mare
galleggiano i pensieri
lasciati liberi di volare
in un attimo di pace.
Non so dove andranno
a posarsi
e non so che direzione
prenderanno,
saranno loro a guidare 
la mia mente
quando avranno trovato
lo scoglio su cui fermarsi
per vivere un'altra vita.
Per un attimo.

martedì 6 dicembre 2016

RICORDO DI SETTEMBRE

RICORDO di SETTEMBRE
L’odore del mare.

“Tante èn stàt le volt che c’sia gìt, che dop en hai più voja… a setember… d’gì al mar. La sera è fredd, el giorn el sol en scalda più cum prima, e pu… gambia l’udòr, l’udòr del mar”
“In meglio o in peggio?”
Fermi in colonna sull’autostrada, due uomini chiacchieravano attraverso i finestrini delle loro auto. Erano capitati lì, affiancati, solo perché il caso si era preso la briga di scegliere loro due, perfetti sconosciuti, accomunandoli in una fastidiosa sosta, a motivo di un malaugurato cambio di corsia.
La domanda stupì il fanese. L’occasionale compagno di sventura non solo ascoltava quello che lui pensava ad alta voce, ma addirittura capiva il dialetto.
E’ noto che puoi trovare uno di Fano anche in mezzo al deserto del Sahara e nei momenti più impensati, ma a lui questo pareva proprio di non averlo mai visto prima. Un forestiero? O piuttosto la mente gli fallava e quella persona la conosceva benissimo? Il quesito non lo tormentò più di tanto.
“Cu t’ho da dì…” continuò sicuro di essere capito “E’ diferènt…; vedi: d’inverne el mar en udora, a men che en faccia strasordìn e alora senti a nì su l’udòr del pesc, d’le algh, d’la ligara…tutt insiem, tutt mischiàt. Qualcun dic che è ‘na pussa, no un udòr; specialment i ragass la pensèn daxì. D’estat… bhè d’estat c’è un altre udòr: bell, delicàt, leger cum 'na piuma, e che a la sera… è 'na madunina! A la sera d’venta propri special”
L’altro guardava, incuriosito ed attratto nello stesso istante. Con le mani ferme sull’inutile volante lo guardava senza parlare, senza far trasparire dal volto il seppur minimo segno di impazienza, né di esagerata attenzione.
Il fanese, da parte sua, aveva approfittato della breve pausa tra i suoi pensieri ad alta voce per cercare di ricordare che targa avesse l’auto del vicino: “C’è casi che sia d’le part noster” pensò prima di aggiungere, deluso, “Mo tant sa’ le targ de adess en se capisc più nient; va’ a sapè”
“J ho sesantatrè ann” riprese “so nat al mar e viv al mar, anca si en so’ mai gìt in mar… imbarcàt, vòi dì.”
Lo guardò un attimo per essere convinto che l’altro seguisse il concetto. Seguiva perfettamente.
“En el so’ perché, mo si me levi el mar me levi tutt. J c’i’ho moi, fioi, nipòt… e ho semper pensàt che el mar, el rumor del mar, c’i’ha t’nùti semper insiem. Insomma… vòi di’… si en fussa el mar che ce tien uniti, no’ ce sparpajàn da tutt le part. Quest v’leva dì”
La colonna di auto si spostò in avanti di qualche metro, sufficiente per interrompere il flusso dei pensieri. Lo sconosciuto interlocutore avanzò con la sua, badando bene di rimanergli affiancato.
“A setember el mar gambia anca de culor. Dic’ne : e per forsa! Gambia el culor del ciel! En è vera nient! Gambia el culor per cont sua, el ciel en c’entra nient! El mar sembra d’ventà… cum t’ho da dì… … men amic… Insomma: in agost te sembra un amic, mo a setember no… a par incasàt sa qualcò o sa qualcùn!”
“A setember” continuò dopo una breve pausa e con gli occhi persi, per veder meglio il suo pensiero “i gabiàn volèn più bassi, a le volt vien’ne a riva, perché en c’èn più i bagnant che i romp’ne i cuoòn. I bagnìn ar’mett’ne a post le sdràj e i’umbrelòn menter da per tutt c’è n’aria de smobilitasiòn. I vecchi artorn’ne padroni d’le panchìn e d’le pasegiàt… i vecchi… quei c’l’han sfangata durant l’estàt.”
Gli ci volle un attimo di riflessione prima di continuare “Qualcun ar’và al mar per arcurdass mej de qualcò che c’i’ha a che fa’ sa la stagion ch’è f’nita. A le volt, tra mès ai ricord, trova qualcò de bell; a le volt ar’torna a casa pegg de prima perché de tutt quell c’aveva da succeda… en è sucess nient!”
Finalmente la colonna di auto cominciò a dar segni di ripresa e lentamente centinaia e centinaia di ruote di ogni foggia e dimensioni si rimisero a girare.
Fu in quel momento che lo strano e sconosciuto interlocutore gli parlò, ma era difficile ascoltarlo impossibilitati com’erano di restare affiancati. Ognuno riprendeva il proprio solitario, nevrotico, inutile cammino verso una meta che non rappresentava null’altro che il punto di partenza verso un’altra meta, destinata anch’essa a venir inanellata tra le cose agognate quanto inutili dell’esistenza.
Il fanese non era sicuro di aver capito bene, non era certo se aveva inteso veramente o se il cervello si era arrogato il diritto di aggiungere, tagliare ed aggiustare le frasi spezzettate che l’ormai lontano automobilista gli stava rivolgendo.
“A settembre le rondini sanno di dover ripartire. Volano verso il nido con l’intento di fermarsi, ma non lo fanno. Nulla le attira più lì come accadeva il mese precedente; il compito assegnato è stato portato a termine mentre se ne prepara un altro, ma riguarda il futuro. Le vedi volare decise ed ansiose verso il cornicione, poi… poi basta loro il tempo di controllare che tutto sia in ordine e… volano via. Senza sapere se torneranno.”


giovedì 1 dicembre 2016

IN RIVA AL FIUME

Camminava in riva al fiume
con la testa tra le nuvole
guardava la cima degli alberi
altissimi e di color argento
sentiva il vento cantare tra i rami
e sottovoce ripeteva
la stessa, struggente melodia.
Pensava...
Com'era lontano il mare,
com'era lontana la  giovinezza,
com'erano lontani i  sogni,
passo dopo passo 
sfogliava la sua vita
mentre l'acqua mormorava
sfiorando la riva.
Forse, sarebbe bastato un sorriso
per rompere l'incantesimo.