martedì 13 dicembre 2016

RICORDO DI OTTOBRE

RICORDO di OTTOBRE
La piccola fiammiferaia del Politeama Cesare Rossi

Stazionava davanti al Politeama, dal giovedì alla domenica. Gli altri giorni no, perché, diceva, “Per c’la poca gent che va al cinema, en vàl manca la pena de prenda tutt ch’el fredd!”.
In qualche modo anche lei era nel mondo degli affari.
Alta un metro e basta, perennemente con un fazzolettone nero in testa come fosse reduce da una funzione funebre, le mani grandi come lo scurone di una finestra e le dita che avrebbero chiuso ermeticamente lo scarico del lavandino, tant’erano tozze.
Rimaneva tutto il pomeriggio seduta sopra non si sa bene sopra quale basamento, perché coperto da un sedere enorme e da un grembiule che definire abbondante sarebbe un eufemismo. Sulle ginocchia teneva una cesta in vimini con dentro, ordinatamente alla rinfusa, semi di zucca (le sementìn), noccioline, lupini e quant’altro potesse tornare utile da sgranocchiare durante la proiezione.
D’inverno, sistemato sotto la sottana, custodiva un vecchio barattolo di alici, di quelli bassi e larghi, al quale aveva applicato un rudimentale manico; al suo interno c’era della brace ardente, cosicché poteva scaldarsi nei lunghi freddi pomeriggi. Verso sera la brace si esauriva ed allora lei, con pazienza certosina, bruciava piccoli pezzi di carta da giornale (quasi sempre Grand Hotel -chissà poi perché-) nell’intento di ravvivare il calore del fuoco. Questa operazione era immancabilmente preceduta dalla richiesta di un fiammifero ad ogni cliente; le andava bene anche un cerino o uno svedese, la Ronson no, tanto non glie l’avrebbero prestata.
Forse per questo la chiamavano la piccola fiammiferaia, dove piccola indicava null’altro che la statura somatica.
La gente normale, prima di entrare, si fermava per le compere: dieci lire di sementine (un bicchiere da osteria), venti lire di noccioline (sempre un bicchiere da osteria perché -diceva lei- costavano di più) ed il resto (se c’era) veniva investito in lupini, gomme americane, caramelle, rotolini di liquirizia con pallina colorata al centro o stecche di liquirizia, che garantivano denti e bocca nera sino alla mattina seguente.
Non tutti si fermavano per le compere: i “signori” entravano lesti e si servivano nel bar annesso al cinema, dove potevano ordinare con tutta calma un caffè, un Aperol o un Chinotto per le signore; in ogni caso mai qualcosa da portare in sala. Non stava bene.
Lei, la fiammiferaia, non badava a loro; quando le passavano vicino, seguitava ad arrotolare con quelle manone la carta gialla, costruendo cartocci dove mettere le sementi; ma dentro il cartoccio non metteva solo quelle, quasi come per presentimento, ogni volta aggiungeva alla merce venduta una buona dose di rabbia.
Poi, un giorno di dicembre, quando ormai tutti -da tempo- eravamo abituati a quella sconosciuta quanto famigliare presenza, a qualcuno venne un’intuizione geniale: vendere quella merce alimentare senza alcun controllo costituiva un palese reato. Dicevano che c’era da ammalarsi mangiando quella roba! La donna (e quelle che come lei vendevano sementi davanti agli altri tre cinema di Fano) doveva sloggiare, magari cambiare mestiere.
Per far rispettare la legge si rivolsero ai vigili urbani i quali, a loro volta, fecero più volte la conta tra di loro, comandante escluso, per stabilire a chi spettasse eseguire quell’ingrato compito.
Come abbondantemente previsto, per i due designati l’operazione si mostrò di non facile esecuzione perchè c’era un gran bel discorrere con quelle quattro donne. Addirittura un vigile, avvicinatosi un po’ troppo al reo, si era buscato un clamoroso calcio nello stinco dalla donnetta del Cinema Corso, tra gli applausi degli astanti che, masticando sementine, assistevano alla curiosa sceneggiata.
Con la fiammiferaia del Politeama, a scanso di sorprese, misero in atto tutte le precauzioni del caso, non potendo tuttavia immaginare l’epilogo al quale la notifica avrebbe condotto.
La piccola fiammiferaia guardò i due in divisa e poi, impensierendoli non poco, si mise a frugare nelle tasche dell’ampio grembiule. Cosa celava? Una pistola? Un coltello? O magari una pietra, visto che abitava in fondo al cavalcavia dalle parti della Sassonia? Niente di tutto questo: estrasse un semplice, umile, fiammifero di legno, invecchiato dal tempo. Era così vecchio che il colore dello stelo si confondeva con quello della capocchia rendendo ardua la comprensione su quale fosse, delle due, l’estremità da strofinare per procedere alla accensione.
“El sapèt da quant’è che c’l’ho machì?” chiese ai due mostrandolo come un trofeo.
Quello più giovane stava per buttare là una data, ma venne tosto interrotto da quello più anziano: in certe situazioni era meglio non parlare, per non compromettersi.
E comunque lei, senza aspettare risposta, accese il fiammifero strofinandolo doverosamente sul muro, ove lasciò una lunga striscia scura (già questo costituiva reato); curò con dovizia che la fiamma prendesse vigore tra le sue manone chiuse a conchiglia come per proteggere qualcosa di molto importante e rimase lì, a guardarla come si guarda un’Ostia Benedetta prima di portarla alla bocca.
Fissava la fiamma che gettava piccoli bagliori sul suo viso, esaltandone le rughe, sotto gli occhi attenti dei vigili urbani, sempre pronti ad intervenire in caso si fossero appalesati gli estremi di un pericolo pubblico.
Quando il fiammifero si spense… la donna scomparve dalla vista di quei due che, si seppe in seguito, nel loro rapporto non osarono scrivere nulla su quanto avevano assistito.
Lei, la piccola fiammiferaia del Politeama Cesare Rossi, sparì per sempre e nessuno, pur rimpiangendola, ne ebbe notizia alcuna.
Tutto avvenne come accade ai ritratti dell’anima, che svaniscono senza lasciare traccia.
Agli altri.



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