RICORDO di
OTTOBRE
La piccola fiammiferaia del Politeama
Cesare Rossi
Stazionava
davanti al Politeama, dal giovedì alla domenica. Gli altri giorni no, perché,
diceva, “Per c’la poca gent che va al cinema, en vàl manca la pena de prenda
tutt ch’el fredd!”.
In qualche
modo anche lei era nel mondo degli affari.
Alta un metro
e basta, perennemente con un fazzolettone nero in testa come fosse reduce da
una funzione funebre, le mani grandi come lo scurone di una finestra e le dita
che avrebbero chiuso ermeticamente lo scarico del lavandino, tant’erano tozze.
Rimaneva
tutto il pomeriggio seduta sopra non si sa bene sopra quale basamento, perché
coperto da un sedere enorme e da un grembiule che definire abbondante sarebbe
un eufemismo. Sulle ginocchia teneva una cesta in vimini con dentro,
ordinatamente alla rinfusa, semi di zucca (le sementìn), noccioline, lupini e
quant’altro potesse tornare utile da sgranocchiare durante la proiezione.
D’inverno,
sistemato sotto la sottana, custodiva un vecchio barattolo di alici, di quelli
bassi e larghi, al quale aveva applicato un rudimentale manico; al suo interno
c’era della brace ardente, cosicché poteva scaldarsi nei lunghi freddi
pomeriggi. Verso sera la brace si esauriva ed allora lei, con pazienza
certosina, bruciava piccoli pezzi di carta da giornale (quasi sempre Grand
Hotel -chissà poi perché-) nell’intento di ravvivare il calore del fuoco.
Questa operazione era immancabilmente preceduta dalla richiesta di un
fiammifero ad ogni cliente; le andava bene anche un cerino o uno svedese, la
Ronson no, tanto non glie l’avrebbero prestata.
Forse per
questo la chiamavano la piccola fiammiferaia, dove piccola indicava null’altro
che la statura somatica.
La gente
normale, prima di entrare, si fermava per le compere: dieci lire di sementine
(un bicchiere da osteria), venti lire di noccioline (sempre un bicchiere da
osteria perché -diceva lei- costavano di più) ed il resto (se c’era) veniva
investito in lupini, gomme americane, caramelle, rotolini di liquirizia con
pallina colorata al centro o stecche di liquirizia, che garantivano denti e
bocca nera sino alla mattina seguente.
Non tutti si
fermavano per le compere: i “signori” entravano lesti e si servivano nel bar
annesso al cinema, dove potevano ordinare con tutta calma un caffè, un Aperol o
un Chinotto per le signore; in ogni caso mai qualcosa da portare in sala. Non
stava bene.
Lei, la fiammiferaia,
non badava a loro; quando le passavano vicino, seguitava ad arrotolare con
quelle manone la carta gialla, costruendo cartocci dove mettere le sementi; ma
dentro il cartoccio non metteva solo quelle, quasi come per presentimento, ogni
volta aggiungeva alla merce venduta una buona dose di rabbia.
Poi, un
giorno di dicembre, quando ormai tutti -da tempo- eravamo abituati a quella
sconosciuta quanto famigliare presenza, a qualcuno venne un’intuizione geniale:
vendere quella merce alimentare senza alcun controllo costituiva un palese
reato. Dicevano che c’era da ammalarsi mangiando quella roba! La donna (e
quelle che come lei vendevano sementi davanti agli altri tre cinema di Fano)
doveva sloggiare, magari cambiare mestiere.
Per far
rispettare la legge si rivolsero ai vigili urbani i quali, a loro volta, fecero
più volte la conta tra di loro, comandante escluso, per stabilire a chi
spettasse eseguire quell’ingrato compito.
Come
abbondantemente previsto, per i due designati l’operazione si mostrò di non facile
esecuzione perchè c’era un gran bel discorrere con quelle quattro donne.
Addirittura un vigile, avvicinatosi un po’ troppo al reo, si era buscato un
clamoroso calcio nello stinco dalla donnetta del Cinema Corso, tra gli applausi
degli astanti che, masticando sementine, assistevano alla curiosa sceneggiata.
Con la
fiammiferaia del Politeama, a scanso di sorprese, misero in atto tutte le
precauzioni del caso, non potendo tuttavia immaginare l’epilogo al quale la
notifica avrebbe condotto.
La piccola fiammiferaia
guardò i due in divisa e poi, impensierendoli non poco, si mise a frugare nelle
tasche dell’ampio grembiule. Cosa celava? Una pistola? Un coltello? O magari
una pietra, visto che abitava in fondo al cavalcavia dalle parti della
Sassonia? Niente di tutto questo: estrasse un semplice, umile, fiammifero di
legno, invecchiato dal tempo. Era così vecchio che il colore dello stelo si
confondeva con quello della capocchia rendendo ardua la comprensione su quale
fosse, delle due, l’estremità da strofinare per procedere alla accensione.
“El sapèt da
quant’è che c’l’ho machì?” chiese ai due mostrandolo come un trofeo.
Quello più
giovane stava per buttare là una data, ma venne tosto interrotto da quello più
anziano: in certe situazioni era meglio non parlare, per non compromettersi.
E comunque
lei, senza aspettare risposta, accese il fiammifero strofinandolo doverosamente
sul muro, ove lasciò una lunga striscia scura (già questo costituiva reato);
curò con dovizia che la fiamma prendesse vigore tra le sue manone chiuse a
conchiglia come per proteggere qualcosa di molto importante e rimase lì, a
guardarla come si guarda un’Ostia Benedetta prima di portarla alla bocca.
Fissava la
fiamma che gettava piccoli bagliori sul suo viso, esaltandone le rughe, sotto
gli occhi attenti dei vigili urbani, sempre pronti ad intervenire in caso si
fossero appalesati gli estremi di un pericolo pubblico.
Quando il
fiammifero si spense… la donna scomparve dalla vista di quei due che, si seppe
in seguito, nel loro rapporto non osarono scrivere nulla su quanto avevano
assistito.
Lei, la
piccola fiammiferaia del Politeama Cesare Rossi, sparì per sempre e nessuno,
pur rimpiangendola, ne ebbe notizia alcuna.
Tutto avvenne
come accade ai ritratti dell’anima, che svaniscono senza lasciare traccia.
Agli altri.
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