RICORDO di
AGOSTO
Storia
semplice di un ragazzo matto.
Che gìssa
semper in bicicletta, d’estàt e d’inverne, el sapev’ne tutti; mo chi fussa
verament… en l’ha sapùt mai nisciùn.
Quel
ragazzotto poteva avere… diciotto? vent’anni? … Pantaloni alla zuava, basco in
testa, qualche pelo di barba nonostante l’età, era comunque piuttosto
grandicello per passare tutto il suo tempo a gironzolare in biciletta, quando
ormai i suoi coetanei lavoravano tutti, o studiavano all’università.
E le idee
erano vaghe anche su chi fossero i genitori, o forse -e più semplicemente-
nessuno se lo era mai domandato con l’intento di ottenere una risposta
esaustiva. Tanto che importava? Non dava mica fastidio a qualcuno!
Capitava di
vederlo anche nei posti meno comuni: sulla salita delle
Caminate, sulle strade strette e sterrate di Roncosanbaccio, lungo lo stradone di cemento che dalla
rotonda arrivava al porto costeggiando
la spiaggia della Sassonia… ma qui solo d’inverno, quando non c’erano i
bagnanti. A scuola? E chissà se c’era mai stato! Probabilmente non ne aveva
avuto il tempo, preso com’era a pedalare con la testa tra le nuvole, le sue
nuvole private.
Anche in
agosto, col caldo che asfissiava e tagliava le gambe, lui pedalava; in salita e
in discesa, sull’asfalto in pianura e gli sterrati in campagna.
E cantava, e
sognava.
En fischiava
mai, cantava.
Non a
squarciagola, per carità, lo faceva pian piano, tra sé e sé, e dovevi proprio
farci caso per capirlo, ma certamente aveva sempre in mente una canzone, quasi
come se potesse pedalare solo cantando, o viceversa.
Fano, alla
fine degli anni cinquanta, non era poi tanto grande e capitava che qualche
anziano lo vedesse passare più d’una volta al giorno, ed allora non mancava di
sottolineare l’incontro guardandolo in faccia e facendo roteare un dito vicino
alla tempia, per significargli “Te, carin mia, en c’hai tutt le rutell per el
vers giust!”. Ma lui non lo vedeva: leggeri movimenti delle labbra al seguito
di una canzone erano il suo unico impegno, mentre appoggiava le mani sul
manubrio che ai suoi occhi si era trasformato in un grosso volante, come quelli
di un camion, o di un autobus.
Ed era così
che, tra le nuvole dove viaggiavano i suoi pensieri, si immergeva in un suo
sogno privato-privatissimo: quello di
poter guidare uno di quei grossi pulman pieni di gente che ammirava la sua
maestria di autista provetto nel prender le curve più strette, imbucare i
passaggi più ostici… Lui, lui, portava in gita i turisti di tutte le nazioni in
tutte le nazioni del mondo; gente di ogni colore, con gli idiomi più strani e i
vestiti più inusuali , passeggeri che lo amavano perché era bravo, oltre che
indispensabile come lo è un autista quando si è in gita, per l’appunto.
Ma le gite
finivano prima o poi, e la gente scendeva dimenticandosi presto dell’uomo fermo
in piedi appena fuori la portiera del pulman che li salutava con ossequio. Oh,
questo sarebbe accaduto ogni volta, e lui sapeva che lo avrebbero dimenticato
presto! Ma aveva un antidoto: un mantra illuminante che andava ripetendosi ogni
fine gita: “E cu m’importa! Finchè er’ne sopra s’incugev’ne de me. J c’era ed
impurtant, per lora!”.
Così, nel
sogno e nella vita, mentre gli altri vivevano per sé, lui viveva per gli altri.
Già.
Ma lui era
speciale, unico.
Che gìssa
semper in bicicletta, d’estàt e d’inverne, el sapev’ne tutti; mo chi fussa
verament… en l’ha sapùt mai nisciùn.
E lu’ manca
l’ha mai ditt.
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