martedì 27 dicembre 2016

RICORDO DI NOVEMBRE

RICORDO di NOVEMBRE
Con nessuno al mondo.  Storia di Vali.

Quand’era giovane, nella sua carta di identità, sotto la voce “professione”, campeggiava l’anonima e neutra dicitura “impiegata”; anonima come lei, neutra come le sue emozioni.
“Quand Gesù Crist ha près ‘na manciata de cristian per butalla in t’el mond, ha tiràt su anca ma me! Mo chisà per cu fa?!”; ed aggiungeva un sano “…mo va’ là!” che era il sua intercalare preferito.
La chiamavano Vali; da “va’ là”.
Forse.
Non era sposata, non era accompagnata. Viveva sola, sempre attorniata dalle amiche con le quali parlava, scherzava, litigava o giocava alle carte.
Aveva settant’anni suonati e la vedevi sempre con la bocca aperta, perché parlava in continuazione, di tutto e quindi di niente.
“Me piac a discurra” ammetteva candidamente, ma ometteva di aggiungere “daxì la gent en me chied nient e j i la mett cum me par.”
Si diceva abitasse dalle parti dei Piattelletti e che quando chiudeva l’uscio di casa, era come se un pesante sipario di impenetrabile riservatezza piombasse su di lei. Si diceva anche che in quella casa non fosse mai entrato nessuno, neppure il prete per la benedizione di Pasqua, nemmeno il dottore quando lei aveva la febbre.
Benché amasse la compagnia, la disertava regolarmente quando le amiche si recavano al cimitero per la visita ai defunti.  Non le accompagnava mai.
“Me par persìn impusibìl che en c’i’ha ‘ma nisciùn: el pader, la mader… un fratèl…” si sfogava con le amiche una di loro, in un anonimo mattino di novembre del 1959, mentre, lentamente ed a piedi, risalivano la strada di fianco la Liscia per andare verso il camposanto. Un’altra, abbondante nella mole, pur accusando qualche difficoltà a parlare mentre camminava, volle aggiungere:
“Daxì alegra, daxì de cumpagnìa… epùr de lia en parla mai, ansi: gambia discors…”
Come ascoltasse quelle valutazioni, Vali ripeteva sovente a sé stessa e agli altri: “J so’ ‘na donna sensa pasàt; quell en m’l’avèt da chieda, perché m’el so’ scurdàt. E da un bel pèss!”
Non era di Fano, vi era giunta dietro l’accoglienza di una domanda di trasferimento. Per sapere donde provenisse bisognava fare delle ricerche, ma nessuno ne aveva gran voglia. E poi era passato tanto tempo, tanto tempo che aveva imparato alla perfezione il dialetto dei fanesi; naturalmente dimenticandosi il proprio, assieme al passato.
Una cosa di lei era davvero strana: che spariva letteralmente di circolazione durante le feste comandate, soprattutto a Natale ed a Pasqua, per ricomparire puntualmente subito dopo e senza sentirsi in dovere di fornire spiegazione alcuna. Rimaneva tappata in casa per spolverare, prendere in mano o, più semplicemente, accarezzare con gli occhi e col pensiero, una infinita serie di piccoli oggetti maschili: un pettinino da tasca, una chiave, un fazzoletto da naso, una caramellina Charms al gusto di caffè ed ancora avvolta nella sua carta trasparente; finanche un mozzicone di sigaretta senza filtro, così contorto e bruciacchiato che sembrava fosse stato schiacciato con rabbia su uno di quegli anonimi posacenere bianchi con la scritta “Martini” di fianco.
Rimaneva lì tutto il periodo delle feste, dedicando loro ogni attimo del suo tempo. Talvolta ne spostava uno, di pochi millimetri, ponendoci un’attenzione quasi religiosa, per poi riposizionarlo dov’era prima, sempre con tocchi leggeri, come nel timore di svegliarli. Anche se la commozione non faceva più parte del suo repertorio emozionale, ogni tanto si sorprendeva che la saliva le si fermasse in gola, trovando una strettoia insormontabile nei muscoli contratti che rompono la voce e preparano al pianto.
Guardando quegli oggetti maschili dava licenza alla mente di rivolgersi al passato, ai ricordi, ai frammenti di parole e, soprattutto, ai silenzi del dopo. Ed allora, magicamente, rivedeva tutti i suoi uomini, uno ad uno: erano tantissimi. Li aveva frequentati un po’ per necessità, un po’ per amore e mai -come si sostiene comunemente- per professione. A suo modo li aveva amati; li aveva ascoltati ed accarezzati, sempre, tutti. Sentiva di amarli quando li spogliava, li amava profondamente quando, nell’intenzione di tornare al loro mondo, li aiutava a rimettersi indosso i panni. Vali, che non aveva altro mondo dove andare, del suo amava il doloroso anonimato, la curiosa neutralità dei suoi affetti.
Quegli uomini, sfuggenti compagni della sua vita, l’hanno amata così tanto che, di lei, non ne hanno mai parlato.

Con nessuno al mondo. 

venerdì 23 dicembre 2016

IL TRENO CHE NON PASSA MAI

Seduto nella panchina
di marmo della stazione
aspettava un treno
che non arrivava mai.
Si alternavano le stagioni,
il sole tiepido, il caldo,
le foglie morte d'autunno,
il freddo dell'inverno.
 Il treno non arrivava
e non passava mai.
Aveva forse 
sbagliato stazione?
O il luogo?
No, era assolutamente
certo di questo.
E allora...
Avrebbe atteso ancora,
seduto e immobile
in quella panchina di 
marmo della stazione.
Tanto, prima o poi,
avrebbe sentito il fischio,
il cigolìo delle ruote
che frenavano sui binari
e sarebbe finalmente 
salito per andare
dove aveva sognato
per tutta la vita.

martedì 20 dicembre 2016

RICORDO DI DICEMBRE

RICORDO di DICEMBRE
Notte di Natale

Spesso non riuscivo a capirlo, ma quando ci riuscivo era bellissimo vivere con uno così.
Mangiare, dormirgli vicino, passeggiare; soprattutto passeggiare!
Oh, quant’era bello andare in giro assieme!
Decideva sempre lui dove andare, testardo come una capra! Sempre la stessa strada, monotona come lo scorrere delle mie ore, quando rimanevo steso sul divano aspettando che tornasse.
Ogni tanto cambiava itinerario ed allora lo guardavo chiedendogli: “Che cosa ti è successo stavolta?” e lui… … mi sorrideva? Non lo so, credo non sorridesse mai a nessuno, a me bastava ascoltare il tono della voce per capire se era sereno.
Quando gli girava storto non comprendevo se fosse arrabbiato con me o con il resto del mondo e nemmeno riuscivo a capire la ragione dei suoi repentini cambiamenti di orario, quando mi lasciava a lungo lì, da solo, come uno scemo.
La sua stupidità non finiva di stupirmi se solo pensavo alla difficoltà che incontrava nel comprendere che il mio posto era accanto a lui che mangiava, leggeva, fumava o dormiva; tutte cose che faceva con me steso in terra, messo in un posto da dove potevo controllare agevolmente se qualcuno entrava in casa. Lo facevo in forza di un istinto appreso chissà quando; non mi costava fatica alcuna, anzi: provavo un gran piacere nel proteggere quell’individuo lunatico come tutti gli umani, o quasi tutti. Lo stesso istinto mi ripeteva ogni giorno che dovevo amarlo, sempre, disinteressatamente e ad ogni costo. Lui era il mio capo branco.
Ed io l’ho amato, sempre, in ogni caso, ad ogni costo.
L’ho amato per niente in cambio, proprio come Vali, un umano che ho conosciuto quassù.
E quassù mi è stato detto che un cane, come io sono stato in terra, ama l’uomo come gli umani vorrebbero amarsi tra loro; ma non riescono, perché sperano di essere riamati.
Noi, io, no.
Non mi sono mai aspettato niente in cambio, nemmeno quella notte di dicembre piena di luci, di colori e di odori nuovi, quando mi sono sentito male e, col fiato alla gola, sono salito nella sua camera per dirgli  che me ne sarei andato senza di lui lungo un percorso tutto mio, e senza quell’odioso guinzaglio al collo.
Mi ha guardato senza comprendere, mentre, nell’ultimo istante concessomi, riuscivo ad amare persino la sua innata, desolatamente umana, incapacità di capire l’amore.
Stupido d’un uomo!





sabato 17 dicembre 2016

LE STESSE COSE...

Le stesse parole,
gli stessi passi,
gli stessi percorsi,
 mentre parlano
pensano ad altro
distratti o annoiati,
lei guarda le vetrine,
lui pensa alla commessa
del negozio che ha
appena superato;
abbigliamento,cellulari,
scarpe, biancheria intima
poi ancora abbigliamento,
pizzeria e gelateria,
yogurteria e bar...
a rompere la monotonìa
l'incontro con una coppia amica
ma vanno di fretta,
poche parole, sorriso e saluti
e allora riprendono 
il cammino.
Lei guarda ancora le vetrine...
lui pensa di nuovo
 alla commessa del negozio.
Fino a che non è ora
di tornare a casa
per guardare la TV.





giovedì 15 dicembre 2016

CADONO LACRIME...

Cadono lacrime
dai rami spogli e morti
degli alberi 
appena illuminati
dalla luce fioca
dei lampioni.
Piangono 
o rimpiangono
i caldi giorni d'estate
quando le foglie
e i fiori colorati
vestivano di bellezza
i loro corpi.
Si aggiunge tristezza
a tristezza
in queste giornate
di nebbia
che tutto copre
e tutto appiattisce
in un unico, smorto colore.

martedì 13 dicembre 2016

RICORDO DI OTTOBRE

RICORDO di OTTOBRE
La piccola fiammiferaia del Politeama Cesare Rossi

Stazionava davanti al Politeama, dal giovedì alla domenica. Gli altri giorni no, perché, diceva, “Per c’la poca gent che va al cinema, en vàl manca la pena de prenda tutt ch’el fredd!”.
In qualche modo anche lei era nel mondo degli affari.
Alta un metro e basta, perennemente con un fazzolettone nero in testa come fosse reduce da una funzione funebre, le mani grandi come lo scurone di una finestra e le dita che avrebbero chiuso ermeticamente lo scarico del lavandino, tant’erano tozze.
Rimaneva tutto il pomeriggio seduta sopra non si sa bene sopra quale basamento, perché coperto da un sedere enorme e da un grembiule che definire abbondante sarebbe un eufemismo. Sulle ginocchia teneva una cesta in vimini con dentro, ordinatamente alla rinfusa, semi di zucca (le sementìn), noccioline, lupini e quant’altro potesse tornare utile da sgranocchiare durante la proiezione.
D’inverno, sistemato sotto la sottana, custodiva un vecchio barattolo di alici, di quelli bassi e larghi, al quale aveva applicato un rudimentale manico; al suo interno c’era della brace ardente, cosicché poteva scaldarsi nei lunghi freddi pomeriggi. Verso sera la brace si esauriva ed allora lei, con pazienza certosina, bruciava piccoli pezzi di carta da giornale (quasi sempre Grand Hotel -chissà poi perché-) nell’intento di ravvivare il calore del fuoco. Questa operazione era immancabilmente preceduta dalla richiesta di un fiammifero ad ogni cliente; le andava bene anche un cerino o uno svedese, la Ronson no, tanto non glie l’avrebbero prestata.
Forse per questo la chiamavano la piccola fiammiferaia, dove piccola indicava null’altro che la statura somatica.
La gente normale, prima di entrare, si fermava per le compere: dieci lire di sementine (un bicchiere da osteria), venti lire di noccioline (sempre un bicchiere da osteria perché -diceva lei- costavano di più) ed il resto (se c’era) veniva investito in lupini, gomme americane, caramelle, rotolini di liquirizia con pallina colorata al centro o stecche di liquirizia, che garantivano denti e bocca nera sino alla mattina seguente.
Non tutti si fermavano per le compere: i “signori” entravano lesti e si servivano nel bar annesso al cinema, dove potevano ordinare con tutta calma un caffè, un Aperol o un Chinotto per le signore; in ogni caso mai qualcosa da portare in sala. Non stava bene.
Lei, la fiammiferaia, non badava a loro; quando le passavano vicino, seguitava ad arrotolare con quelle manone la carta gialla, costruendo cartocci dove mettere le sementi; ma dentro il cartoccio non metteva solo quelle, quasi come per presentimento, ogni volta aggiungeva alla merce venduta una buona dose di rabbia.
Poi, un giorno di dicembre, quando ormai tutti -da tempo- eravamo abituati a quella sconosciuta quanto famigliare presenza, a qualcuno venne un’intuizione geniale: vendere quella merce alimentare senza alcun controllo costituiva un palese reato. Dicevano che c’era da ammalarsi mangiando quella roba! La donna (e quelle che come lei vendevano sementi davanti agli altri tre cinema di Fano) doveva sloggiare, magari cambiare mestiere.
Per far rispettare la legge si rivolsero ai vigili urbani i quali, a loro volta, fecero più volte la conta tra di loro, comandante escluso, per stabilire a chi spettasse eseguire quell’ingrato compito.
Come abbondantemente previsto, per i due designati l’operazione si mostrò di non facile esecuzione perchè c’era un gran bel discorrere con quelle quattro donne. Addirittura un vigile, avvicinatosi un po’ troppo al reo, si era buscato un clamoroso calcio nello stinco dalla donnetta del Cinema Corso, tra gli applausi degli astanti che, masticando sementine, assistevano alla curiosa sceneggiata.
Con la fiammiferaia del Politeama, a scanso di sorprese, misero in atto tutte le precauzioni del caso, non potendo tuttavia immaginare l’epilogo al quale la notifica avrebbe condotto.
La piccola fiammiferaia guardò i due in divisa e poi, impensierendoli non poco, si mise a frugare nelle tasche dell’ampio grembiule. Cosa celava? Una pistola? Un coltello? O magari una pietra, visto che abitava in fondo al cavalcavia dalle parti della Sassonia? Niente di tutto questo: estrasse un semplice, umile, fiammifero di legno, invecchiato dal tempo. Era così vecchio che il colore dello stelo si confondeva con quello della capocchia rendendo ardua la comprensione su quale fosse, delle due, l’estremità da strofinare per procedere alla accensione.
“El sapèt da quant’è che c’l’ho machì?” chiese ai due mostrandolo come un trofeo.
Quello più giovane stava per buttare là una data, ma venne tosto interrotto da quello più anziano: in certe situazioni era meglio non parlare, per non compromettersi.
E comunque lei, senza aspettare risposta, accese il fiammifero strofinandolo doverosamente sul muro, ove lasciò una lunga striscia scura (già questo costituiva reato); curò con dovizia che la fiamma prendesse vigore tra le sue manone chiuse a conchiglia come per proteggere qualcosa di molto importante e rimase lì, a guardarla come si guarda un’Ostia Benedetta prima di portarla alla bocca.
Fissava la fiamma che gettava piccoli bagliori sul suo viso, esaltandone le rughe, sotto gli occhi attenti dei vigili urbani, sempre pronti ad intervenire in caso si fossero appalesati gli estremi di un pericolo pubblico.
Quando il fiammifero si spense… la donna scomparve dalla vista di quei due che, si seppe in seguito, nel loro rapporto non osarono scrivere nulla su quanto avevano assistito.
Lei, la piccola fiammiferaia del Politeama Cesare Rossi, sparì per sempre e nessuno, pur rimpiangendola, ne ebbe notizia alcuna.
Tutto avvenne come accade ai ritratti dell’anima, che svaniscono senza lasciare traccia.
Agli altri.



mercoledì 7 dicembre 2016

TRA NEBBIA E MARE

Tra nebbia e mare
galleggiano i pensieri
lasciati liberi di volare
in un attimo di pace.
Non so dove andranno
a posarsi
e non so che direzione
prenderanno,
saranno loro a guidare 
la mia mente
quando avranno trovato
lo scoglio su cui fermarsi
per vivere un'altra vita.
Per un attimo.

martedì 6 dicembre 2016

RICORDO DI SETTEMBRE

RICORDO di SETTEMBRE
L’odore del mare.

“Tante èn stàt le volt che c’sia gìt, che dop en hai più voja… a setember… d’gì al mar. La sera è fredd, el giorn el sol en scalda più cum prima, e pu… gambia l’udòr, l’udòr del mar”
“In meglio o in peggio?”
Fermi in colonna sull’autostrada, due uomini chiacchieravano attraverso i finestrini delle loro auto. Erano capitati lì, affiancati, solo perché il caso si era preso la briga di scegliere loro due, perfetti sconosciuti, accomunandoli in una fastidiosa sosta, a motivo di un malaugurato cambio di corsia.
La domanda stupì il fanese. L’occasionale compagno di sventura non solo ascoltava quello che lui pensava ad alta voce, ma addirittura capiva il dialetto.
E’ noto che puoi trovare uno di Fano anche in mezzo al deserto del Sahara e nei momenti più impensati, ma a lui questo pareva proprio di non averlo mai visto prima. Un forestiero? O piuttosto la mente gli fallava e quella persona la conosceva benissimo? Il quesito non lo tormentò più di tanto.
“Cu t’ho da dì…” continuò sicuro di essere capito “E’ diferènt…; vedi: d’inverne el mar en udora, a men che en faccia strasordìn e alora senti a nì su l’udòr del pesc, d’le algh, d’la ligara…tutt insiem, tutt mischiàt. Qualcun dic che è ‘na pussa, no un udòr; specialment i ragass la pensèn daxì. D’estat… bhè d’estat c’è un altre udòr: bell, delicàt, leger cum 'na piuma, e che a la sera… è 'na madunina! A la sera d’venta propri special”
L’altro guardava, incuriosito ed attratto nello stesso istante. Con le mani ferme sull’inutile volante lo guardava senza parlare, senza far trasparire dal volto il seppur minimo segno di impazienza, né di esagerata attenzione.
Il fanese, da parte sua, aveva approfittato della breve pausa tra i suoi pensieri ad alta voce per cercare di ricordare che targa avesse l’auto del vicino: “C’è casi che sia d’le part noster” pensò prima di aggiungere, deluso, “Mo tant sa’ le targ de adess en se capisc più nient; va’ a sapè”
“J ho sesantatrè ann” riprese “so nat al mar e viv al mar, anca si en so’ mai gìt in mar… imbarcàt, vòi dì.”
Lo guardò un attimo per essere convinto che l’altro seguisse il concetto. Seguiva perfettamente.
“En el so’ perché, mo si me levi el mar me levi tutt. J c’i’ho moi, fioi, nipòt… e ho semper pensàt che el mar, el rumor del mar, c’i’ha t’nùti semper insiem. Insomma… vòi di’… si en fussa el mar che ce tien uniti, no’ ce sparpajàn da tutt le part. Quest v’leva dì”
La colonna di auto si spostò in avanti di qualche metro, sufficiente per interrompere il flusso dei pensieri. Lo sconosciuto interlocutore avanzò con la sua, badando bene di rimanergli affiancato.
“A setember el mar gambia anca de culor. Dic’ne : e per forsa! Gambia el culor del ciel! En è vera nient! Gambia el culor per cont sua, el ciel en c’entra nient! El mar sembra d’ventà… cum t’ho da dì… … men amic… Insomma: in agost te sembra un amic, mo a setember no… a par incasàt sa qualcò o sa qualcùn!”
“A setember” continuò dopo una breve pausa e con gli occhi persi, per veder meglio il suo pensiero “i gabiàn volèn più bassi, a le volt vien’ne a riva, perché en c’èn più i bagnant che i romp’ne i cuoòn. I bagnìn ar’mett’ne a post le sdràj e i’umbrelòn menter da per tutt c’è n’aria de smobilitasiòn. I vecchi artorn’ne padroni d’le panchìn e d’le pasegiàt… i vecchi… quei c’l’han sfangata durant l’estàt.”
Gli ci volle un attimo di riflessione prima di continuare “Qualcun ar’và al mar per arcurdass mej de qualcò che c’i’ha a che fa’ sa la stagion ch’è f’nita. A le volt, tra mès ai ricord, trova qualcò de bell; a le volt ar’torna a casa pegg de prima perché de tutt quell c’aveva da succeda… en è sucess nient!”
Finalmente la colonna di auto cominciò a dar segni di ripresa e lentamente centinaia e centinaia di ruote di ogni foggia e dimensioni si rimisero a girare.
Fu in quel momento che lo strano e sconosciuto interlocutore gli parlò, ma era difficile ascoltarlo impossibilitati com’erano di restare affiancati. Ognuno riprendeva il proprio solitario, nevrotico, inutile cammino verso una meta che non rappresentava null’altro che il punto di partenza verso un’altra meta, destinata anch’essa a venir inanellata tra le cose agognate quanto inutili dell’esistenza.
Il fanese non era sicuro di aver capito bene, non era certo se aveva inteso veramente o se il cervello si era arrogato il diritto di aggiungere, tagliare ed aggiustare le frasi spezzettate che l’ormai lontano automobilista gli stava rivolgendo.
“A settembre le rondini sanno di dover ripartire. Volano verso il nido con l’intento di fermarsi, ma non lo fanno. Nulla le attira più lì come accadeva il mese precedente; il compito assegnato è stato portato a termine mentre se ne prepara un altro, ma riguarda il futuro. Le vedi volare decise ed ansiose verso il cornicione, poi… poi basta loro il tempo di controllare che tutto sia in ordine e… volano via. Senza sapere se torneranno.”


giovedì 1 dicembre 2016

IN RIVA AL FIUME

Camminava in riva al fiume
con la testa tra le nuvole
guardava la cima degli alberi
altissimi e di color argento
sentiva il vento cantare tra i rami
e sottovoce ripeteva
la stessa, struggente melodia.
Pensava...
Com'era lontano il mare,
com'era lontana la  giovinezza,
com'erano lontani i  sogni,
passo dopo passo 
sfogliava la sua vita
mentre l'acqua mormorava
sfiorando la riva.
Forse, sarebbe bastato un sorriso
per rompere l'incantesimo.








martedì 29 novembre 2016

RICORDO DI AGOSTO

RICORDO di AGOSTO
Storia semplice di un ragazzo matto.

Che gìssa semper in bicicletta, d’estàt e d’inverne, el sapev’ne tutti; mo chi fussa verament… en l’ha sapùt mai nisciùn.
Quel ragazzotto poteva avere… diciotto? vent’anni? … Pantaloni alla zuava, basco in testa, qualche pelo di barba nonostante l’età, era comunque piuttosto grandicello per passare tutto il suo tempo a gironzolare in biciletta, quando ormai i suoi coetanei lavoravano tutti, o studiavano all’università.
E le idee erano vaghe anche su chi fossero i genitori, o forse -e più semplicemente- nessuno se lo era mai domandato con l’intento di ottenere una risposta esaustiva. Tanto che importava? Non dava mica fastidio a qualcuno! 
Capitava di vederlo  anche  nei posti meno comuni: sulla salita delle Caminate, sulle strade strette e sterrate di Roncosanbaccio,  lungo lo stradone di cemento che dalla rotonda arrivava al porto  costeggiando la spiaggia della Sassonia… ma qui solo d’inverno, quando non c’erano i bagnanti. A scuola? E chissà se c’era mai stato! Probabilmente non ne aveva avuto il tempo, preso com’era a pedalare con la testa tra le nuvole, le sue nuvole private.
Anche in agosto, col caldo che asfissiava e tagliava le gambe, lui pedalava; in salita e in discesa, sull’asfalto in pianura e gli sterrati in campagna.
E cantava, e sognava.
En fischiava mai, cantava.
Non a squarciagola, per carità, lo faceva pian piano, tra sé e sé, e dovevi proprio farci caso per capirlo, ma certamente aveva sempre in mente una canzone, quasi come se potesse pedalare solo cantando, o viceversa.
Fano, alla fine degli anni cinquanta, non era poi tanto grande e capitava che qualche anziano lo vedesse passare più d’una volta al giorno, ed allora non mancava di sottolineare l’incontro guardandolo in faccia e facendo roteare un dito vicino alla tempia, per significargli “Te, carin mia, en c’hai tutt le rutell per el vers giust!”. Ma lui non lo vedeva: leggeri movimenti delle labbra al seguito di una canzone erano il suo unico impegno, mentre appoggiava le mani sul manubrio che ai suoi occhi si era trasformato in un grosso volante, come quelli di un camion, o di un autobus.
Ed era così che, tra le nuvole dove viaggiavano i suoi pensieri, si immergeva in un suo sogno privato-privatissimo:  quello di poter guidare uno di quei grossi pulman pieni di gente che ammirava la sua maestria di autista provetto nel prender le curve più strette, imbucare i passaggi più ostici… Lui, lui, portava in gita i turisti di tutte le nazioni in tutte le nazioni del mondo; gente di ogni colore, con gli idiomi più strani e i vestiti più inusuali , passeggeri che lo amavano perché era bravo, oltre che indispensabile come lo è un autista quando si è in gita, per l’appunto.
Ma le gite finivano prima o poi, e la gente scendeva dimenticandosi presto dell’uomo fermo in piedi appena fuori la portiera del pulman che li salutava con ossequio. Oh, questo sarebbe accaduto ogni volta, e lui sapeva che lo avrebbero dimenticato presto! Ma aveva un antidoto: un mantra illuminante che andava ripetendosi ogni fine gita: “E cu m’importa! Finchè er’ne sopra s’incugev’ne de me. J c’era ed impurtant, per lora!”.
Così, nel sogno e nella vita, mentre gli altri vivevano per sé, lui viveva per gli altri.
Già.
Ma lui era speciale, unico.
Che gìssa semper in bicicletta, d’estàt e d’inverne, el sapev’ne tutti; mo chi fussa verament… en l’ha sapùt mai nisciùn.
E lu’ manca l’ha mai ditt.





lunedì 28 novembre 2016

SE...

Se chiudi gli occhi
e vedi un aquilone che vola...
pensi di tornare bambino
con i sogni che ti portano
lontano, lontano.
Se apri gli occhi
e vedi un fuoristrada
che ti viene incontro
e quasi ti investe
perchè il pilota sta parlando
al cellulare ridendo 
come un idiota...
pensi che il mondo
meriti un diluvio universale.
Se lei ti guarda e ti sorride...
pensi che val la pena
sopportare anche gli idioti
perchè tanto prima o poi,
 si elimineranno da soli.
...forse...




martedì 22 novembre 2016

RICORDO DI LUGLIO

RICORDO di LUGLIO
Ferdinando Torretti, nome di fantasia

En ce vedeva un cas!
En v’deva da machì a malì; en v’deva un pajar da do’ meter !
I’uchiaj en i v’leva purtà e i t’neva semper in t’le sacocc, perché, diceva, i stav’ne mal. E daxì en ce v’deva manca per bestemià, prò caminava caminava spedìt, cum si nient fussa, cum un cristian nurmal; mo lu en era nurmal, lu aveva propri b’sogn de ch’i’uchiaj sa le lent daxì spess che parev’ne i fanaj d’un camion.
Spess e volentieri inciampava o sbatèva contra qualcun, e ogni volta chiedeva scusa ma tutti, anca ma’ i lampion! Daxì aveva decìs de fa semper la stessa strada, perché l’aveva imparata a memoria. Mo se, per cas, c’era un scatulòn per terra, o el camiuncìn del panetier parchegiàt malì, alora si che i dava 'na sardella de c’le bell! E subìt bestemmiava, bestemmiava brutt, anca si en ce v’deva manca per fa’ quell.
Da Biozzi c’era stàt ‘na volta sola, quand s’era incòt del difèt. Mo quand’era de dentra l’ambulatori d’l’oculista, per sbài aveva spustàt un sgabell e quell l’aveva sbatùt fora senza visitàl e senza manca chieda i sold.
Ogni tant bucava de dentra da Da Ros a chieda si pudeva metta c’le lent che se tac’ne dentra i’occhi, e Luciano i’ rispundeva che el problema sua -si propri en v’leva purtà i’uchiaj- se risulveva gambiànd i’occhi. Mo lù en c’i’armaneva mal; in fond en è che i’impurtassa più de tant.
E daxì diceva ma tutti che i’uchiaj i’ stav’ne mal, e manca ce v’deva un cas!
Mo nisciùn sapeva che de dentra casa le lent le purtava: era d’fora che preferiva a veda el mond tutt sfucàt, tutt macchi culuràt e senza cuntòrn, sensa righ né quadrett; le lampadìn che parev’ne c’le stell de Natal fatt sa la stagnola, la funtana d’piassa un tutt’un grig... per lù el mond era mej daxì, senza tanta precisiòn, sensa tant robb che pudev’ne fa creda che tutti capisc’ne tutt e tutti polèn cuntralà agnicò.
Per lù era mej un mond daxì, apena disegnàt; a tutt el rest ce pensava la fantasia sua.







sabato 19 novembre 2016

SENZA RUMORE...

Passa il tempo
senza far rumore
ed è per questo
che non ci accorgiamo
quando ci sfiora
 ci supera 
e poi si allontana
per andare chissà dove.
Fanno chiasso,invece,
i miei pensieri,
i miei sogni,
il cuore che batte forte
inseguendo nuvole
che sfiorano le mie dita
e sembrano i tuoi capelli
mossi dal vento.



giovedì 17 novembre 2016

AVEVA UN FIORE TRA I CAPELLI

Teneva sempre un fiore
tra i capelli
e amava la vita.
Camminava a passi lenti
con andatura provocante
sorrideva 
non si sa bene a chi
i suoi occhi
bellissimi e chiari
sapevano essere dolci
ma anche cattivi se era
arrabbiata.
Teneva sempre un fiore
tra i capelli
aveva tanti amici
e nessun amico
tante amiche
e nessuna amica
ma sapeva dare
tutta se stessa
nelle passioni del cuore.
Andava contro corrente
per carattere 
e non per posa
ed era odiata per questo
dalle altre ragazze.
Parlava con una voce
leggermente roca
  sensuale e pura
e non gridava mai,
le bastava uno sguardo
 per farsi capire.
Quando tutte le ragazze
andavano in bicicletta
lei usava la moto
che sapeva pilotare
con abilità.
Ma non in quella occasione...
ed il fiore cadde a terra.
Per sempre.


martedì 15 novembre 2016

RICORDO DI GIUGNO

RICORDO di GIUGNO
“Super Inox Bolzano”

Assomigliava curiosamente a Nicolò Carosio, nella voce e nelle fattezze.
Non si sa quanto fosse alto, perché non usciva mai dalla Fiat Topolino. Svolgeva il proprio lavoro stando seduto in auto con un microfono davanti alla bocca, tenuto fermo con un ingegnoso sistema a molle; sopra vi aveva posto un fazzoletto bianco, per evitare che la saliva rovinasse la fragile membrana.
Un microfono.
Come Nicolò Carosio.
Appunto.
Ogni sabato, e c’era il mercato, un bambino si fermava a guardare quello strano negozio semovente fatto con un plaid di lana steso sul cofano e sopra, in meticoloso ordine, lamette da barba, sapone, pennelli e rasoi di sicurezza. Sulla capote campeggiava un glorioso altoparlante Radio Marelli e sotto, seduto al posto di guida -vestito con un impeccabile completo, baffi curatissimi e voce di tonalità bassa- c’era lui, il simil-Nicolò Carosio. Invitava tutti a comperare le lamette della “Super Inox Bolzano” che, aggiungeva con puntigliosa competenza “sono le uniche a garantire mille rasature, tutte perfette”.
Super Inox Bolzano: colui aveva anche il pregio di non essere esterofilo!
L’auto lentamente si spostava facendosi largo tra la gente, quasi tutta di estrazione contadina, che animavano il mercato del sabato. I capoccia venivano da soli, spesso col motorino; le donne arrivavano in gruppo e con la bicicletta, la stessa che al ritorno quasi scompariva sotto il carico di enormi pacchi di merce comperata.
La difficoltà nel progredire non lo irritava affatto l’uomo della Super Inox Bolzano perché sapeva bene che l’andatura lenta favoriva l’acquisto. Gli uomini si fermavano, sceglievano la merce esposta sul cofano dell’auto e poi si chinavano verso il finestrino, con gli spiccioli in mano. Lui riscuoteva e ringraziava, senza staccare mai il microfono dalla bocca, cosicché tutti potevano ascoltare anche i minimi particolari della transazione.
Ah, dimenticavo: non si contrattava. Anche se non lo diceva, con lui i prezzi erano fissi.
Il bimbo non capiva cosa l’attirasse di più: l’auto? L’altoparlante? La merce in vendita? … o piuttosto lui, il Nicolò Carosio della situazione? Capiva solo che qualsiasi gioco stesse facendo doveva interrompersi, per andare a vedere quello della “Fiat Topolino” o, forse, per ascoltare la sua magica voce da basso lirico, mentre scherzava all’insegna di una commessa che passava veloce o discuteva, con un compratore un po’ tardo in matematica, circa la precisione del resto in danaro che gli aveva appena consegnato.
Solo quando pioveva l’uomo della Fiat Topolino non veniva al mercato, ed allora il bambino si chiedeva dove potesse essere andato, quel giorno.
Chissà: forse è ancora lì che aspetta il bel tempo, per tornare negli occhi del bambino.




venerdì 11 novembre 2016

UN PASSAGGIO

Dice:" mi dai un passaggio?"
" Un passaggio per andare dove?"
" Non so...non ho le idee chiare,
voglio solo allontanarmi da qui".
" Ma non sai neanche dove vado,
forse percorro solo pochi metri"
"Pochi metri, molti metri, chilometri,
non è la distanza che conta..
fammi salire e andiamo".
Vedi cadono le foglie,
il vento le fa volare
 e le posa lontano,
anche loro hanno chiesto
un passaggio.
Forse anch'io sono una foglia
che ha voglia solo di dimenticare.

martedì 8 novembre 2016

UNO SCHERZO...TRINCIATO FORTE

Molti, molti anni fa, in una cittadina che non è  ASSOLUTAMENTE Fano.
Proprio nel mese di novembre quando dagli alberi cadono le foglie  morte a tonnellate.

Amici da sempre e colleghi ,due birbanti trentenni non  si lasciano scappare l'occasione di fare uno scherzo " forte" ad un giovane appena assunto dalla pubblica amministrazione per fare il segretario tuttofare ad un importante assessore.
I due aspettano che la vittima sia sola nell'ufficio del'assessorato e poi gli telefonano.
" Pronto, guardi qui è il vice presidente dell'Associata Italiana della Malboro ( sigarette). Noi abbiamo un contratto con voi per avere l'esclusiva della raccolta delle foglie secche nei viali ...................... perchè le utilizziamo per mischiarle con il tabacco e farne trinciato forte per le pipe".
Il giovane segretario balbetta qualcosa, fa sapere che l'assessore non c'è e che lui di questo non sa nulla.
Ma il "vice presidente" insiste con voce tesa:" il fatto è che abbiamo saputo che gli spazzini stanno portando via tutte le foglie con gli autocarri .Come mai non sono stati avvertiti che in quei viali devono lasciare le foglie secche e terra che a portarle via ci pensiamo noi con i nostri mezzi? E' un danno enorme per noi!!!"
La giovane vittima resta di sasso, balbetta ancora, non sa cosa fare..
" Guardi, si dia da fare-dice ancora il rappresentante della Malboro.Blocchi tutto o sono guai, anche per lei!!!".
Rosso in volto, sudato, quasi tremante, il neo segretario dell'assessore si attacca al telefono e comincia a chiamare la Nettezza Urbana, I vigili e chiunque pensa possa dargli una mano.
Terribile la situazione.
I due birbanti ed anche un pò carognette, capiscono che la situazione sta prendendo una brutta piega e allora...si fanno avanti, entrano nell'ufficio del poveretto e ridendo gli spiegano che era stato solo uno scherzo.
CONCLUSIONE:
I due amici-colleghi potevano fare a meno di prenderlo in giro però lui...credere che la Malboro comperi le foglie secche per mischiarle al tabacco...
Gli anni da allora sono passati ed è da non credere.
Il "giovane" ha fatto una bella carriera, si è fatto furbo, è stato democristiano, socialista, comunista,  e via di questo passo
per ottenere quel che voleva.
Forse la lezione è servita !!!

RICORDO DI MAGGIO

RICORDO di MAGGIO
La pergamena

L’iconografia era di quelle classiche: le rondini garrivano nel cielo sereno dell’imbrunire di Piazza XX Settembre, aria mite, alcune mamme osservavano i loro figli giocare, non trascurando di chiacchierare tra loro, tavoli e sedie del Bar Aurora tutti occupati da gente che parlava, beveva, fumava.
La donna attraversava velocemente la piazza per recarsi a casa mentre, nella memoria, annotava gli elementi iconografici di quell’ennesimo maggio, senza tuttavia provare curiosità né voglia di fermarsi a guardare meglio.
Fu un tacco, malevolmente infilatosi tra le fessure del selciato, a bloccarla d’imperio proprio davanti la chiesa di San Silvestro.
Operò con una certa maestria per liberarlo senza togliersi la scarpa, ma ormai si era fermata; lì, davanti alla chiesa.
Fervente cristiana non lo era mai stata. L’ultima volta che era andata a messa fu in occasione di… di che? Non ricordava. Qualcosa la spinse ad entrare. E lo fece.
“El segn d’la Croc se c’mincia da la spalla de destra o da c’l’altra?” si chiese assaporando il rumore attutito che giungeva da fuori. Non ricordava neppure che dentro la chiesa tutto diventa ovattato, il tempo si ferma, lo spirito si libera.
Si segnò come le capitò di fare, dopo aver inumidito le dita nell’acquasantiera.
Due passi avanti, verso l’altare, nel silenzio. Si stava immergendo in un mondo irreale, disertato dai più, dalla popolazione dei distratti.
Fissato al muro, un quadro proteggeva una vecchia pergamena; valeva la pena leggerla?
Con tutti i magoni che aveva, le incombenze, le difficoltà che solo una donna che vive in solitudine può conoscere, ritenne non fosse il caso di prestarle attenzione, neppure per soddisfare una punta di sana curiosità.
Un quadro, nel muro.
“Impara a mantenerti calmo e sereno tra il chiasso e l’agitazione, pensa alla pace che si gode nel silenzio”
“Cazzate” le venne di pensare.
“Evita le persone chiassose e rissose: sono un tormento per lo spirito”
Però: che strano! Quella pergamena la stava attirando irresistibilmente, voleva farsi leggere. Era un caso o piuttosto intendeva comunicarle qualcosa?
“Cerca di essere te stesso, non fingere l’affetto se non l’hai, ma non essere cinico verso l’amore perché anche se esso appassisce e secca, tuttavia rinverdisce sempre, come l’erba”
Ripensò ad una persona che non era più con lei; una persona importante, un giro di boa nella sua esistenza.
“Fa tesoro dell’esperienza che viene dagli anni e rinuncia ai sogni di gioventù”
L’esperienza e gli anni le avevano mostrato unicamente quanta forza deriva dalla serena rassegnazione …
“Tu sei una creatura dell’universo, non meno degli alberi e delle stelle. Hai diritto di restare qui, e non importa se lo sai o meno”
… anche se più di una volta aveva pensato di farla finita con questa vita così avara di soddisfazioni, così prodiga di delusioni ed amarezze.
“Sii in pace con Dio, qualunque sia la concezione che hai di Lui”
In pace con Dio… dovette ammettere a sé stessa che era sempre riuscita nell’intento di ricominciare da capo. Decisamente qualcosa o qualcuno l’aveva sempre aiutata: forse l’idea dell’esistenza di una Volontà superiore, forse la rabbia, forse l’amore.
Forse.
“Con tutte le falsificazioni, le noiose occupazioni ed i sogni spezzati… è pur sempre un bel mondo il nostro, il tuo. Sii prudente. Sforzati di essere felice.”
“… di essere felice…” ripetè automaticamente.
Finito di leggere non risolse di cambiar vita, né di votarsi ad opere pie. Non decise che sarebbe andata a Messa tutte le domeniche, né di scoppiare in uno sproloquio di bestemmie.
Restò a lungo col capo chino, guardando in terra, laddove il pavimento faceva angolo con il muro.
Prima di uscire.
(liberamente tratto da “Desiderata”, di Anonimo)




domenica 6 novembre 2016

LA VECCHIA PANCHINA

La vecchia panchina
di legno
coperta di foglie morte
cadute dagli alberi vicini
era comparsa
all'improvviso al suo sguardo
mentre percorreva
a passi veloci
quel lungo viale,
dimenticato da anni,
nel tentativo di arrivare a casa
 prima che scoppiasse
il temporale.
Si era fermato con emozione.
In un attimo, quanti ricordi
gli erano tornati alla mente.
Era proprio la panchina,
vicino agli sgangherati
giochi dei bimbi
dove da ragazzo,
al calar della luce,
andava con la fidanzata
quasi ogni giorno
vivendo amore e carezze.
Tante parole, tante promesse,
 tanti momenti felici
sognando una vita
che non sarebbe mai cambiata.
Ed invece............................
La pioggia aveva cominciato
a cadere forte e dispettosa
investendo i suoi pensieri.
Meglio andare in fretta
prima del diluvio.